Festival Dottrina sociale: Agnese Moro, “davvero nulla è irreparabile”

(Foto: Valentina Zamboni)

(da Verona) “Davvero non c’è niente di irreparabile. Il passato non lo puoi cambiare ma puoi cambiare quello che quel passato significa oggi. Vite che sono state distorte da storie drammatiche possono tornare ad essere vite buone”. È la testimonianza di Agnese Moro, figlia dello statista democristiano rapito e assassinato dalle Brigate rosse nel 1978, che ha offerto ai partecipanti al panel “La giustizia riparativa: un incontro che apre al futuro. Esperienza del gruppo dell’incontro, vittime e responsabili della lotta armata a confronto” svoltosi oggi pomeriggio nell’ambito della terza giornata della XII edizione del Festival della Dottrina sociale in corso al Palaexpo Verona Fiere sul tema “Costruire la fiducia – La passione dell’incontro”.
Il suo racconto è partito da quel “silenzio che grida”, quel “silenzio di chi ha subito dei torti non ricevuti dal destino ma dalla volontà di altre persone”. E da quelle “parole che non riescono a trovare il modo di esprimersi, che diventano qualcosa di solido nelle persone, che cristallizzano gran parte della vita legandola al passato che non passa mai”. Quell’“urlo che non trova il modo di uscire” grazie al percorso di giustizia riparativa è riuscito ad essere incanalato per “ricostruire relazione, affetti, vite”. È stata un’occasione per “riguardare noi stessi come persone” condividendo spazi e luoghi chi ha fatto e chi ha subito il male, “con un atto di fiducia reciproca e in chi propone l’esperienza”. Un percorso difficile che ha consentito di “superare i ruoli lasciati dal passato” e “trovare un’umanità che sembra perduta”. È stato così possibile “diventare amici con persone che ti hanno fatto del male”. “Fiducia” e “incontro” sono parole che sono tornate frequentemente nell’intervento di Agnese Moro: “Siamo partiti da distanze abissali, nella mia testa sono stati dei mostri per tantissimi anni alimentando sentimenti terribili”, ha riconosciuto. Ma “l’umanità non va perduta, anche per uno che l’ha fatta grossa”. Per tre decenni “ho cercato di inglobare dentro di me lo schifo di quell’esperienza”, ha proseguito riferendosi alle sofferenze di quel 1978 e degli anni seguenti: “Mi sentivo un insetto in una goccia d’ambra. Possiamo stare zitti, non dire una parola ma purtroppo anche il nostro silenzio trasferisce rabbia e odio”. “Si possono guarire le ferite?”, ha chiesto Agnese Moro, convinta che la risposta sia: “Una strada per riprendere la vita dopo una violenza c’è. Un altro modo per uscire dal male è possibile, quel male che sembra così onnipotente quando lo subisci non è detto che abbia l’ultima parola”.

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