Ecumenismo: Maggi (pastora battista) al Sae, “Dio ha un presente e un futuro, una storia che cerca nuovi linguaggi per nuove stagioni”

(Foto Laura Caffagnini per il Sae)

Come parliamo di Dio? È la domanda alla base di una tavola rotonda che si è svolta alla sessione di formazione ecumenica promossa dal Sae ad Assisi nella quale cristiane e cristiani di diverse confessioni stanno interrogandosi su come costruire Chiese più accoglienti.
“La domanda su come dire Dio riguarda la nostra identità di credenti e non solo i teologi e le teologhe – ha detto la pastora battista Lidia Maggi, impegnata nel dialogo ecumenico e interreligioso e membro del gruppo teologico del Sae -. Ci interroghiamo perché abbiamo prestato attenzione alle voci che sorgono nel contesto in cui siamo chiamate e chiamati a vivere la nostra fede. Voci creative che ci hanno mostrato che è possibile un altro linguaggio per dire Dio, che facciamo teologia in una situazione nella quale tra le varie crisi che affrontiamo – la crisi della parola, di un linguaggio di fede che sembra non comunicare più – c’è una parte di Chiesa che si sente esclusa da un certo modo di dire Dio”. La riflessione sul linguaggio, ha precisato Maggi, riguarda tutto il simbolico che la grammatica e la lingua mettono in scena. E riguarda come fare liturgia, come testimoniare, come essere Chiesa. Questo ripensamento viene svolto in un contesto ecumenico alla cui radice c’è la responsabilità che la Chiesa sia sempre più una realtà inclusiva dove le differenze siano accolte e riconosciute. La vocazione specifica ecumenica, ha aggiunto, “è proprio quella di interrogarsi sulle ferite tra e nelle Chiese e provare a facilitare processi di giustizia riparativa».
Un altro motivo per dire Dio in un linguaggio non sessista “è l’eccedenza che richiede una ricerca esistenziale per dire l’esperienza strepitosa che è stato Dio per noi. Se siamo qui è perché diciamo che la nostra speranza è il Dio della vita che vogliamo dire con una lingua altra per imparare una grammatica diversa da quella del faraone. Siamo qui perché Dio ha un presente e un futuro, una storia che cerca nuovi linguaggi per nuove stagioni. Risuoni la capacità di dire Dio con tutti i nostri diversi registri. Se saremo capaci, sarà possibile imparare a praticare una lingua altra che ci strapperà ai vari esili, anche a quello del patriarcato”.

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