“Siamo radunati attorno all’altare per celebrare il cuore del nostro sacerdozio che non è un ministero solitario, non è una funzione da eseguire, ma un dono ricevuto insieme, una chiamata condivisa, è olio prezioso versato sul capo e che scende sull’orlo della veste”. Così, ieri sera, mons. Alberto Torriani, arcivescovo di Crotone-Santa Severina, nell’omelia della Messa crismale nella concattedrale di Sant’Anastasia a Santa Severina che anche quest’anno, vista la chiusura per restauro della basilica cattedrale di Crotone, ha accolto il presbiterio della diocesi per la concelebrazione che introduce la comunità cristiana nel cuore dell’anno liturgico, il triduo pasquale. Mons. Torriani, per la prima volta, ha presieduto la celebrazione, durante la quale ha benedetto gli olii sacri e consacrato l’olio del crisma. Il presule ha quindi ripreso i cinque verbi — vedere, compatire, accogliere, rialzare, camminare — citati nella liturgia di ingresso in diocesi e che “stanno orientando i miei primi passi da vescovo”: “Li riprendo oggi, coniugandoli alla vita di ciascuno presbitero o diacono, consacrato o laico, perché dentro questi verbi vibra il cuore stesso del Vangelo e del nostro essere discepoli prima e pastori poi, presi a servizio nella Chiesa”. “Vedere le persone e non i numeri. Vedere i volti e non solo i ruoli. Vedere i poveri, come poveri realmente e non come destinatari di un gesto, ma come compagni di strada perché rivelatori del Regno. Vedere è la prima forma di amore”, ha detto il presule: e “per noi preti, per voi diaconi, per tutti i consacrati e le consacrate in particolare, vedere vuol dire guardare a quella porzione di popolo che ci è affidato con lo sguardo di Cristo”. Poi compatire, cioè “patire-con”: il sacerdote, il diacono, il consacrato o la consacrata, “non è un esperto delle cose di Dio, pur se esse fossero colorate o con i pizzi, profumate o preziose. Il sacerdote, il consacrato/a è un uomo o una donna attraversato dalle ferite sue e degli uomini e delle donne di questo tempo, dalle comunità o dai gruppi di questo territorio; ed è capace di abitarle, di restare accanto, di stare sotto la croce senza voltare lo sguardo altrove. Anche il vescovo ha le sue ferite: affettive, ministeriali, pastorali, emotive. Occorre imparare a dare il nome a queste ferite, a guardarle con sincerità e verità, a farle diventare luoghi della grazia, lembi di risurrezione”. Per il presule crotonese “compatire è la vera grammatica della prossimità. E lo è anche nella nostra fraternità sacerdotale”. E ancora “accogliere” che è “molto più che ricevere: è liberare, è restituire spazio, è rimettere in piedi. Le nostre comunità hanno bisogno di presbiteri con le braccia larghe, non solo per benedire, ma per far sentire che il Signore ama senza misura”. Per mons. Torriani le iniziative diocesane, in “ogni ambito pastorale, sono il segno visibile di questa comunione e custodiscono dentro di sé la carica della profezia, oltre ogni particolarismo di appartenenze di territori o di esperienze”. “Rialzare” è poi il “verbo della risurrezione”: “Rialzare chi ha sbagliato, chi si è perduto, chi ha smesso di sperare. Ma anche — con grande umiltà — rialzare tra noi chi è scoraggiato, chi si sente lasciato ai margini, chi ha perso il gusto del Vangelo. Un prete che rialza è un uomo che crede nella potenza della misericordia. E la misericordia – ha aggiunto il presule calabrese – è ciò che ci ha fatto preti”. Da qui l’invito a vigilare “su tutte quelle forme che tradiscono e rinnegano il dono della nostra vocazione. Sono tanti i modi – più o meno subdoli – in cui la nostra vita da consacrati viene defigurata: quando alla comunione preferiamo la chiacchiera o il giudizio reciproco; quando il desiderio di santità personale cede il passo a logiche mondane di possesso o accaparramento; quando la vivacità e creatività intellettuale è soffocata dal già visto o da gesti della tradizione che non sono più capaci di rendere ragione della speranza che è in noi. Quando all’esercizio fecondo e faticoso del pensiero si preferisce la sterilità della pigrizia e della superficialità”. E poi il verbo camminare che “significa essere in uscita, non vivere di ricordi, non stare fermi nel ‘si è sempre fatto così’. Camminare insieme, come presbiterio, lo ripeto è testimonianza del Regno”.