Fine vita: card. Petrocchi (L’Aquila), “imperativo categorico non abbandonare mai il malato”

Card. Petrocchi (foto SIR/Marco Calvarese)

“La vita viene da Dio; l’uomo è chiamato ad accoglierla e portarla a compimento con l’aiuto della grazia. Pertanto la vita – dal concepimento fino alla sua conclusione naturale – costituisce un dono prezioso di cui l’uomo è custode, ma non padrone. In questa visione l’eutanasia (come suicidio assistito) non può trovare mai una sua legittimazione. Così facendo si ‘decide al posto di Dio il momento della morte’. Si tratta di una prospettiva morale che scaturisce dalla fede, ma poggia anche su solide ragioni antropologiche. Infatti, ‘il valore inviolabile della vita è una verità basilare della legge morale naturale ed un fondamento essenziale dell’ordine giuridico’”. Lo ha detto l’arcivescovo de L’Aquila, card. Giuseppe Petrocchi, in un messaggio inviato al convegno-dibattito dal titolo “Fine vita, il silenzio del legislatore e il ruolo delle Regioni” che si è svolto ieri sera nel capoluogo abruzzese. Nel corso dell’evento è stato anche presentato il libro “Soli nel fine vita. Il caso Cappato e la necessità di una legge” (ed. Mondo Nuovo, Pescara), scritto dal magistrato presso il Tribunale de L’Aquila, Marco Billi, nel quale l’autore denuncia il vuoto legislativo sul tema. Ripercorrendo l’insegnamento della Chiesa su questo argomento, il cardinale ha affermato: “È nota la condizione drammatica in cui può trovarsi un paziente a causa di malattie prolungate, dolorose e gravemente disabilitanti. La situazione diventa ancora più sofferta nella fase terminale e dove venga emessa una diagnosi di inguaribilità”. Ma una patologia inguaribile, ha sottolineato il card. Petrocchi, “non è, per questo, anche incurabile: infatti va assicurata al malato una efficace e integrata ‘alleanza terapeutica’, insieme ad un generoso e perseverante accompagnamento spirituale, psicologico e relazionale”. Per il porporato “anche l’aspetto sociale ed economico va preso nella dovuta e fattiva considerazione. Secondo la dimensione evangelica, occorre mobilitare una condivisa ‘carità samaritana’, capace di ‘prossimità’ concreta e a tutto campo”. Nella cura, ha ribadito, è “essenziale che il malato non si senta un peso, ma che abbia la vicinanza e l’apprezzamento dei suoi cari. In questa missione, la famiglia ha bisogno di aiuto e di mezzi adeguati. L’imperativo categorico è quello di non abbandonare mai il malato”. “Se sappiamo che della malattia non possiamo sempre garantire la guarigione – ha aggiunto il cardinale nel suo intervento, letto in aula dal direttore dell’Ufficio comunicazioni sociali dell’arcidiocesi, don Claudio Tracanna -, della persona vivente possiamo e dobbiamo sempre prenderci cura: senza abbreviare noi stessi la sua vita, ma anche senza accanirci inutilmente contro la sua morte. In questa linea si muove la medicina palliativa. Essa riveste una grande importanza anche sul piano culturale, impegnandosi a combattere tutto ciò che rende il morire più angoscioso e sofferto, ossia il dolore e la solitudine”. In seno alle società democratiche, ha concluso il card. Petrocchi, “argomenti delicati come questi vanno affrontati con pacatezza: in modo serio e riflessivo35 e ben disposti a trovare soluzioni – anche normative – il più possibile condivise. Da una parte, infatti, occorre tenere conto della diversità delle visioni del mondo, delle convinzioni etiche e delle appartenenze religiose, in un clima di reciproco ascolto e accoglienza. D’altra parte lo Stato non può rinunciare a tutelare tutti i soggetti coinvolti, difendendo la fondamentale uguaglianza per cui ciascuno è riconosciuto dal diritto come essere umano che vive insieme agli altri in società”.

 

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