Appennini: mons. Sánchez de Toca (Santa Sede), “le croci di vetta sono ricordo di una preghiera costante e silenziosa come quella di Mosè”

“Le nostre croci di vetta sono come il ricordo di una preghiera costante. Non potendolo fare di persona, ci affidiamo al simbolo della croce, un segno spesso povero, nudo, senza alcun valore artistico, come le braccia di Mosè alzate in favore del popolo, le braccia di Cristo sulla croce intercedendo per il popolo”. Così mons. Melchor Sánchez de Toca y Alameda, relatore del Dicastero delle Cause dei Santi, intervenuto questo pomeriggio alla presentazione, presso l’Università Cattolica di Milano, del volume “Croci di vetta in Appennino” (Discendo Agitur Ciampi Editore Roma) della storica dell’arte Ines Millesimi. Croci di vetta, sì o no?, l’oggetto del dibattito. Dopo aver esordito evidenziando le due “posizioni antitetiche e tuttavia, ad un livello più profondo (o forse dovremmo dire superiore), sorprendentemente convergenti” di Erri De Luca che firma la prefazione, e di Paolo Cognetti, autore della postfazione, e aver richiamato, tra l’altro, il surreale romanzo di Chesterton “La sfera e la croce”, mons. Sánchez ha riconosciuto che la croce “è il ricordo di un deicidio e perciò non potrà mai essere rassicurante” (Paolo la definiva scandalosa, e così rimase nei primi tempi del cristianesimo). Divenuta successivamente “segno di identità per eccellenza del cristiano”, ma oggi, in alcuni casi, anche “marchio commerciale” o ciondolo portafortuna svuotato di significato religioso, a che titolo può campeggiare sulla vetta di una montagna? “Non ho una risposta a questa domanda”, ammette il relatore pur dicendosi contento, quando ci sono, di trovarle. Di qui il ricordo di un aneddoto legato alla figura del presidente Pertini, ateo dichiarato e grande amico di Giovanni Paolo II, che sostenne di non voler rimuovere dallo studio presidenziale il crocifisso perché “è da molti amato e venerato”. Concorda mons. Sánchez su questa definizione: “Un simbolo da molti amato e venerato. Specialmente dalle comunità che lo hanno portato su come espressione e testimonianza di fede, perché dal basso delle loro vallate amavano vedere nella croce sulle vette dei monti una preghiera silenziosa e costante, come quella di Mosè sul monte con le braccia alzate”.

 

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