Diocesi: mons. Battaglia (Napoli), “portare la carezza” del Signore “ai delusi, ai rassegnati, a chi ha smarrito la strada, agli stanchi e scoraggiati”

(Foto: ANSA/SIR)

“Non è la stessa cosa parlare di giustizia dall’alto delle nostre sicurezze sociali ed economiche o farlo quando invece si vivono situazioni di precarietà, di sofferenza, di povertà”. Lo ha sottolineato, ieri sera, mons. Mimmo Battaglia, arcivescovo di Napoli, aprendo il XXXI Sinodo diocesano.
“Quando è inverno, quando non hai nulla da mangiare, quando non sai come ripararti dal freddo, quando non dormi, e ti trovi schiacciato, etichettato e evitato da tutti, allora capisci che è tutta un’altra cosa parlare di giustizia, dignità e diritti se ne sei privato – ha affermato il presule -. Così come non è la stessa cosa pregare nel sicuro del tempio: Signore, Signore, lontano dalla quotidianità di chi fa fatica, distante dalla storia delle persone e al sicuro dalle fragilità, dalla povertà, e dalla miseria che possono piegare l’esistenza”. Di qui l’invito: “Dobbiamo educarci a leggere i bisogni come diritti disattesi, ad imparare a rendere ogni povertà trasparente del suo diritto negato”.
E rivolgendosi al povero, escluso, abbandonato, solo, affamato, oppresso, ha aggiunto: “Tu puoi insegnarmi ad amare. Tu puoi insegnarmi a condividere la vita. Tu puoi insegnarmi a rialzare. Tu puoi insegnarmi la speranza. Tu puoi indicarmi il futuro. Tu puoi ricordarmi che resta l’amore”.
L’arcivescovo ha evidenziato: “La comunione è dono che chiede di essere accolto responsabilmente. Siamo chiamati a costruire fraternità, a riedificare le antiche rovine e le città desolate. L’opzione preferenziale per i poveri, l’attenzione agli ultimi, diventi nostro stile di vita, stile e reale desiderio di prossimità, perché l’altro, il povero, diventi fratello. La conversione alla comunione fraterna è un cammino continuo nella libertà”.
Esortando ad ascoltare tutti e a farlo “soprattutto sulla strada”, l’arcivescovo ha ammesso: “Quante volte, invece, noi restiamo chiusi nel nostro tempio, a parlare dal pulpito delle nostre convinzioni senza metterci realmente accanto all’altro, senza creare quella relazione orizzontale di cui Gesù stesso è maestro e testimone”.
Mons. Battaglia ha chiesto di “portare la carezza” del Signore, “una carezza che infonda coraggio a chi vive nella paura. Una carezza che doni speranza a chi è avvolto nell’ombra della delusione e della rassegnazione. Una carezza che indichi la via a chi è smarrito. Una carezza che rianimi la forza in chi è stanco e scoraggiato. Una carezza che faccia sentire meno solo il fratello abbandonato ed emarginato. Una carezza che riempia di Presenza il nostro presente”.
Una Chiesa che così annuncia il Risorto: “Non possiamo vivere senza il Signore, non possiamo vivere senza i fratelli! È la Chiesa che sa fermarsi ed aspettare, perché nessuno resti indietro. È la Chiesa che sperimenta l’umanissimo travaglio della perplessità, della preoccupazione, e condivide con tutti la più lancinante delle sofferenze, l’insicurezza. Una Chiesa sicura solo del suo Signore, e per il resto debole, fragile, bisognosa di tutto. È la Chiesa del Vangelo”.

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