Naufragio di Lampedusa: 10 anni dopo parla il medico Pietro Bartolo. “Quel giorno sul molo Favarolo…”. Il ricordo delle 368 vittime

Foto Calvarese/SIR

(Strasburgo) “3 ottobre di dieci anni fa. Un giorno particolare, per Lampedusa, particolare per me, ma soprattutto per quelle persone che hanno perso la vita. 368 persone hanno perso la vita”. Pietro Bartolo, per 30 anni medico di Lampedusa, la sua terra. Oggi, a 68 anni, è eurodeputato: una scelta, quello di dedicarsi alla politica, per cercare soluzioni “vere” e risposte “umane”, spiega, ai flussi migratori; e poter dare voce a quanti sono costretti a emigrare verso l’Europa per cercare una vita dignitosa, pur sapendo che, attraverso il Mediterraneo, potrebbero perdere la vita. Al Sir, a margine della sessione dell’Europarlamento in corso a Strasburgo, dice: “non mi stancherò mai di chiamarle persone. Qualcuno non sa più come chiamarle: rifugiati, richiedenti asilo, clandestini, migranti economici, migranti climatici… Sono persone, molte delle quali perdono la vita”. “Quel giorno sul molo Favarolo – quel molo che io definisco la mia seconda casa, dove per trent’anni ho passato più giorni e notti che a casa mia – sono stato chiamato dalla Guardia costiera. In realtà quella notte ero stato sulla banchina, perché erano arrivati via mare 840 siriani, che avevo visitato, come sempre. Ma la telefonata di quella mattina era drammatica: me ne ero subito reso conto dalla voce di chi mi chiamava dalla capitaneria. ‘Dottore, c’è stato un naufragio’. Di naufragi ne avevo visti tanti. Con tanti morti. Ma non potevo immaginare 368 persone morte”. “Quando è arrivata la prima barca, del mio amico Fiorino, con l’amica Grazia, raccontavano di aver sentito le urla” di chi era in acqua. Una barca piccola, la loro, sulla quale avevano caricato 49 persone: “era carica, tanto che stava affondando. Grazia mi disse: ‘sai Pietro, non abbiamo potuto caricarne di più, stavamo affondando anche noi. C’è tanta gente che chiede aiuto’”. Lì i primi soccorsi, qualcuno, in condizioni più gravi, trasportato al poliambulatorio. Poi l’arrivo “di una seconda barca, di un altro mio amico, Domenico”. Altre 17 persone portate in salvo, più 4 cadaveri recuperati. “Era disperato, avrebbe voluto salvarne di più”. Bartolo racconta delle visite, di giovani in ipotermia, il dovere di accertare se qualcuno fosse affetto da malattie infettive gravi (“in tanti anni non ho mai riscontrato nessuno con una di queste malattie, che potesse mettere a rischio l’incolumità nazionale”).
Il racconto si sposta “sui quei sacchi neri, quelli con la cerniera, dove si mettono i cadaveri. Io odio quei sacchi, ne ho paura…”. Dopo i primi tre annegati, in rigidità cadaverica, dal quarto sacco si intravvede una ragazza, giovane. “Le ho preso il polso tra le mani, mi è sembrato di sentire un battito. Lieve, quasi impercettibile”. Da lì la corsa al piccolo ambulatorio dell’isola, una puntura intracardiaca di adrenalina: “e il cuore di quella ragazza è tornato a battere regolarmente, per poi portarla in elicottero a Palermo”. Una vita salvata. “Ho poi saputo che dopo 40 giorni Kebrat – il nome della ragazza – era stata dimessa dall’ospedale”.

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