Ecumenismo: padre Monge (domenicano), “non esiste la possibilità di annunciare Dio, senza almeno provare a vivere di Lui”

(Foto: Laura Caffagnini)

“L’apice della Rivelazione non è una legge o un insieme di precetti, ma una persona. E, dunque, per me dire Dio è un entrare in relazione con Lui; ciò significa anche che non esiste la possibilità di annunciare Dio, senza almeno provare a vivere di Lui”. Intervenendo alla 58ª Sessione di formazione promossa dal Sae, in corso alla Domus Pacis di Assisi, sul tema “In tempi oscuri, osare la speranza. Le parole della fede nel succedersi delle generazioni”, padre Claudio Monge, responsabile del Centro domenicano per il dialogo interreligioso e culturale di Istanbul, ha focalizzato la tensione tra i due poli del Dio vissuto e del Dio annunciato. Non può esistere un Dio annunciato che non sia vissuto. Dio si fa conoscere nel dialogo che desidera avere con l’umanità. Ciò implica che la conversazione è la via privilegiata per dire Dio. Occorre scendere dal pulpito. “La Rivelazione cristiana è una relazione che è il luogo di un riconoscimento ben prima che di una conoscenza. Se questo è vero, significa che è molto più importante capire se la nostra vita si accordi o meno alla forma di vita vissuta da Gesù e ai suoi insegnamenti riportatici dai Vangeli, che non determinare, nel dettaglio, la verità storica dei fatti e delle parole che gli vengono attribuiti”.
La manifestazione di Dio avviene nella fede. La fede attira in una “relazione viva” ed è lì che si dispiega la Rivelazione nel senso cristiano del termine. Monge ha avvertito di non parlare del simbolo di fede niceno-costantinopolitano né dell’adesione a insegnamenti propriamente cristiani ma “all’atto elementare di fiducia che poniamo ogni giorno per poter vivere: la vita merita di essere vissuta? Tiene le sue promesse? Niente lo garantisce a priori: per vivere non c’è altra strada che fare credito. Per certi versi, se ci pensate bene, non c’è vita umana senza fede. Esseri vivi, è il sintonizzarci sull’‘io ci sono’ detto da Dio a Mosè, per guardare il mondo e la storia come Lui sa guardarli”.
La fede cristiana è una questione d’incarnazione che parte da quella manifestazione di Dio attraverso quell’uomo di Nazaret che ha vissuto una vita pienamente umana che si è espressa in gesti prima ancora che in parole, gesti che hanno trasformato delle vite. Per il domenicano, “quando ci chiediamo come trasmettere il messaggio di Cristo senza ancora ben sapere perché credere in Lui, il problema principale non è tanto un buon metodo di trasmissione o una strategia comunicativa. Anche perché la questione non è ancora una volta lasciarsi sedurre da una dottrina e poi cercare di trasmetterla, quanto di cogliere in Cristo la straordinaria capacità di toccare ciò che è umano e, a volte, anche troppo umano, in noi, e questo rendendo credibile la sua azione con la sua vita, la sua morte e risurrezione”. La risposta dell’essere umano raggiunto da Cristo non può che essere l’essere presente, una presa di responsabilità vissuta nell’ospitalità radicale. “Quando nelle nostre liturgie diciamo Parola di Dio ci riferiamo a una parola radicalmente umana che è appello alla vita, ad alzarci, a metterci in marcia nei momenti difficili e facili, solo così la parola è ‘buona notizia’”.

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