Aree interne: mons. Savino (Cassano all’Jonio), “cura di natura e relazioni e resistenza a devastazione luoghi e desertificazione sociale” sono “atti politici e pastorali”

Nelle tre lettere dei vescovi italiani sul mezzogiorno (1948, 1989 e  2010) “si evidenzia anche il fatto che uno sviluppo autenticamente umano esiga come essenziale presupposto un lavoro orientato a favorire la maturazione delle coscienze e del loro peso interiore. Da qui l’importanza dell’impegno educativo, a tutti i livelli, e in particolare della scuola e dell’università”. Lo sottolinea, in una riflessione intitolata “La questione del divario civile e delle aree interne. Le implicazioni per la comunità cristiana”, mons. Francesco Savino, vescovo di Cassano all’Jonio e vice presidente della Cei.
“Sono particolarmente densi i passaggi in cui si esplicitano le condizioni affinché la Chiesa possa essere soggetto in grado di contribuire a promuovere questo tipo di sviluppo. Si tratta di condizioni che esigono la scelta della strada stretta, ma liberante, del radicamento personale e comunitario nella profezia dell’ascolto del Vangelo, in una condizione di povertà e di non potere”.
In continuità con queste indicazioni magisteriali, l’invito di mons. Savino, “occorre raccogliere la sfida del divario civile e delle aree interne anche dal punto di vista pastorale, interrogandosi su quale tipo di presenza la Chiesa è oggi chiamata a garantire in tali contesti periferici”.
Per il presule, la Chiesa “nelle aree interne potrebbe trovare le condizioni favorevoli per una rigenerazione delle comunità, riscoprendo la centralità di ciò che conta e che non passa: la Parola e l’Eucarestia, la tessitura intenzionale di legami fraterni, l’assunzione comunitaria dei bisogni dei più fragili”.
“Più che nell’attivismo frenetico, o nella gestione di progetti di intervento complessi – che hanno bisogno di molte risorse finanziarie e di competenze specifiche sul piano gestionale, ma che non sempre riescono a promuovere un reale coinvolgimento dal basso – le comunità cristiane delle aree interne potrebbero coltivare la prospettiva della ‘restanza’, da intendere come assunzione consapevole della responsabilità dei luoghi in cui si abita: ‘Là dove si è rimasti bisogna cercare di costruire e di immaginare una nuova vita. non possiamo limitarci solo a contare i morti, non possiamo farci inghiottire dalle ombre e dai fantasmi del passato (…). Il nostro compito è anche accogliere la vita che arriva, ricevere quelli che tornano, provare a sostenere quanti non vorrebbero partire (…), sperando che anche questo possa servire a costruire nuova comunità’. La cura della natura e delle relazioni, la resistenza ai fenomeni di devastazione dei luoghi e di desertificazione sociale – afferma il presule – rappresentano atti politici e, al tempo stesso, pastorali” .

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