Spagna: card. Cobo (Madrid), a 20 anni da “11-M” è “un dovere ricordare e anche un valore per cercare la verità e ‘reimparare’ a vivere”

“In piena ora di punta, una successione di esplosioni in quattro treni ha provocato la morte di 192 persone, assassinate dalla violenza terrorista, e un numero elevatissimo di feriti”. Lo ha ricordato, stamattina, l’arcivescovo di Madrid, card. José Cobo Cano, nella messa funebre per il 20° anniversario dell’11-M, come viene chiamato l’attentato terroristico dell’11 marzo 2004, a Madrid.
“Non sono numeri. Non sono statistiche. Sono vite umane che sono state interrotte di colpo. Individuali, davvero singolari, uniche, irripetibili, tutte speciali. I defunti erano uomini e donne, giovani e anziani. Erano mariti, padri, madri, sorelle, figli e figlie, amici, vicini di casa, compagni di classe o colleghi di lavoro. La morte, crudele, prematura e violenta, venne avanti. Vittime furono coloro che morivano. Vittime anche le migliaia di feriti, molti dei quali con conseguenze che li accompagneranno per sempre. E le vittime sono coloro che sono rimasti qui, con un vuoto impossibile da colmare, come molti di voi ben sanno. Alcune di queste vittime, familiari e amici sono qui oggi. Altri sono sparsi in molti luoghi. Oggi vogliamo offrire a tutti voi l’abbraccio sentito e affettuoso della Chiesa, l’augurio che le vostre ferite possano guarire con il conforto, gli abbracci, le misure istituzionali di sostegno efficace e la promessa fiduciosa del nostro Dio che la morte non ha l’ultima parola”, ha affermato il porporato, per il quale “ricordare è un dovere. Lo dobbiamo a chi non c’è più. E lo dobbiamo a noi stessi come società. Dobbiamo ricordare le vittime che sono ancora vive nella nostra memoria e chiedere per loro l’abbraccio di Dio”.
Ma, ha osservato il card. Cobo, “ricordare è anche un valore per cercare la verità e ‘reimparare’ a vivere. I popoli che dimenticano il proprio passato sono condannati a ripeterlo. Lo sguardo al passato non deve essere uno sguardo che resta intrappolato nell’inesorabile durezza dei fatti. Né uno sguardo interessato al servizio della propria ideologia. Se guardiamo al passato è per imparare dai nostri errori, per non tornare a ripeterli. E per valorizzare i nostri successi e i nostri risultati, per prendercene cura come il bene delicato che sono”.
Secondo il porporato, “lo sguardo al passato è un dovere, un valore e anche una necessità. Abbiamo bisogno di dare un nome alle cose. Dobbiamo fare una lettura che ci aiuti a elaborare ciò che abbiamo vissuto. La memoria rende presente ciò che altrimenti sarebbe assente. Questa lettura richiede tempo e serenità per avere prospettiva. Da qualche parte lungo la strada dobbiamo trovare un nome per quello che è successo. Ecco perché questo momento è così speciale. Perché sembra che già vent’anni ci permettano di provare ad avere quella prospettiva. In questi giorni si moltiplicano gli sguardi, le interpretazioni, le analisi, i ricordi da ogni tipo di tribuna. Ci sono prospettive politiche, culturali, mediatiche; anche sguardi polemici che in qualche modo vengono riproposti”.

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