Medicina solidale: don Angelelli (Cei), “necessaria ed efficace per i più deboli ma non può sollevare il Ssn dall’obbligo di curare tutti”

“L’esperienza del Covid ha costituito uno spartiacque: come sistema abbiamo retto, ma sono emersi scenari e fatiche che sapevamo esistere ma di cui non avevamo colto appieno la portata”. Ha esordito così don Massimo Angelelli, direttore dell’Ufficio nazionale per la pastorale della salute della Cei, nel suo intervento, ieri sera, al secondo dei due webinar promossi dall’associazione Scienza&Vita sul tema della “medicina solidale” (il precedente si è svolto mercoledì scorso, 6 dicembre). Che cosa non è cambiato? “Il bisogno delle persone di sentirsi curate – la sua risposta -. Viviamo la grande frustrazione dei nostri malati che ottengono una prestazione sanitaria, ma non si sentono curati. Tutto il sistema economico della sanità oggi ruota intorno alla prestazione”. Che cosa è invece cambiato? “Sono crollati alcuni presupposti, anzitutto il grande delirio scientista che negava il limite illogico della persona, la sua fragilità. Abbiamo formato professionisti sanitari con l’idea che applicando il protocollo si sarebbe risolto il problema malattia, ma così abbiano smarrito il concetto fondamentale della relazione di cura – ha spiegato Angelelli -. Abbiamo disimparato a creare relazioni di cura. Il passaggio stesso dal termine ‘medico di famiglia’ a ‘medico di medicina generale’ dice questa trasformazione”. Per questo motivo all’Università di Tor Vergata sono stati avviati percorsi accademici sulla medicina delle relazioni. Tre le parole chiave: informazione, comunicazione, empatia. La prima riguarda “quanta verità dire a paziente e famiglia, e come dirla”, ha spiegato il sacerdote che ha alle spalle una lunga esperienza di cappellano ospedaliero. La comunicazione richiede “un linguaggio comprensibile, un setting e un tempo adeguato sulla scorta della legge 219/2017 che richiama il tempo della comunicazione come tempo di cura, ma il sistema non aiuta”. Infine, empatia come “capacità del medico di stabilire una relazione empatica con il paziente, possibile solo se se ne prende cura facendosi carico della sua sofferenza”. Don Angelelli ha quindi rievocato l’origine solidale e solidaristica della medicina, “nata all’interno della Chiesa come cura degli indigenti, attraverso la creazione dei primi ospedali perché potessero curarsi tutti”. Oggi invece, il monito del responsabile della Pastorale della salute Cei, il sistema “si sta involvendo e molti indigenti, teoricamente tutelati dall’art 32, rischiano di rimanervi fuori”. Poi vi sono “gli ‘irraggiunti’, quelli che sono al di fuori del sistema perché non sanno se e come accedervi. Bisogna fare attenzione – ha ammonito Angelelli – perché è ogni intervento sui sistemi sanitari può generare nuove sacche di povertà e di emarginazione”.
Dopo avere citato la creazione 20 anni fa a Tor Vergata, da parte della professoressa Lucia Ercoli, del primo ambulatorio solidale su un territorio socialmente disagiato all’interno di un tessuto urbano, il sacerdote ha richiamato le diverse esperienze in questo senso attivate dalla Chiesa sul territorio. “La mia preoccupazione – ha detto – è che questo servizio non viene integrato all’interno del Ssn. Una medicina di prossimità alle fasce più deboli è necessaria ed efficace, ma non può sollevare il Ssn dall’obbligo di occuparsi di tutti, altrimenti diventerebbe vicaria di una realtà che invece deve essere universalistica. La vocazione universalistica del Ssn deve essere confermata, e tutto ciò che facciamo – la conclusione di Angelelli – deve essere integrato in una filiera di servizi in cui ci sia anche la responsabilità dello Stato”.

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