Perdonanza Celestiniana: card. Petrocchi (L’Aquila), “il fuoco illumini le nostre ‘notti’ spirituali, culturali, sociali”

“Il gesto ‘esterno’ di accendere il ‘fuoco’ è simbolo di un evento che deve accadere ‘dentro’ l’anima: le fiamme della Perdonanza debbono ardere in tanti cuori. Il fuoco è immagine della carità evangelica, che Dio suscita in noi attraverso il Suo Spirito”. Lo ha detto ieri sera il card. Giuseppe Petrocchi, arcivescovo di L’Aquila, nel suo saluto in occasione dell’accensione del fuoco del Perdono.
Anche la notte in cui si svolge questo rito “ha un significato su cui riflettere”. “In un ambiente, privo di luminosità, si vede poco e male: è difficile identificare persone e cose, così come risulta arduo orientarsi nello spazio e decidere le direzioni da prendere”, ha osservato il porporato che ha auspicato: “Il fuoco della Perdonanza deve illuminare le nostre ‘notti’ spirituali, culturali, sociali. Se spesso è impossibile eliminare rapidamente il buio che ci avvolge, è tuttavia fondamentale che il buio non si trasformi in ‘tenebra’, che è oscurità abitata dal male, in tutte le sue forme. Infatti, la sofferenza, provocata da condizioni avverse che si abbattono sulla nostra storia, non deve ‘inquinarsi’ diventando una palude malsana (personale e collettiva), che genera rabbia, avvilimenti, contrapposizioni, atteggiamenti ostili, individualismi miopi e corrosivi”.
Secondo il cardinale, “si potrebbero elencare numerose ‘notti’ che caratterizzano la nostra epoca: l’ultima, in ordine di tempo, è la ‘calamità pandemica’ che ci ha colpito in modo improvviso e rovinoso. Si spengono molte certezze, vengono meno prospettive su cui si contava, si riducono spazi di vita ai quali si era abituati, si è minacciati nella salute, si vedono attaccate da questo virus-killer persone care, e talvolta si assiste, impotenti, alla morte di parenti e amici. L’oscurità dell’ansia e della insicurezza sembra calare sulla quotidianità e si proietta sul futuro, facendolo apparire opaco e ‘rischioso’”.
Il fuoco della Perdonanza “deve rischiarare questa epidemia drammatica: in particolare, dobbiamo capire sempre meglio ciò che ci è stato tolto, ma anche ciò che ci è stato dato; le possibilità perse ma anche le nuove opportunità guadagnate; cosa è da correggere ma anche ciò che va confermato e rafforzato. Dobbiamo vedere, alla luce del messaggio celestiniano, il bene che è emerso (penso alla dedizione eroica messa in campo da appartenenti alle istituzioni, da operatori sanitari, da una innumerevole schiera di cittadini responsabili), ma occorre pure registrare atteggiamenti trasgressivi e massive manifestazioni di egoismo dannoso”.
Inoltre, “vanno attentamente identificate le ‘zone’ dove domina il ‘buio’: cioè, le ‘periferie esistenziali’ (personali e collettive), come le chiama Papa Francesco. Mi riferisco agli ‘ultimi’ e alle persone escluse, ai malati e a quanti sono feriti nei loro sentimenti, alle condizioni di precarietà economica, agli aspetti di marginalità sociale”. In tutti questi “luoghi” della solitudine e della tristezza, ha concludo il card. Petrocchi, “devono accendersi l’amore fraterno, la solidarietà generosa, la fattiva condivisione: ecclesiale e civile”.

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