“Mi chiamo Lucia Di Mauro. Il 4 agosto del 2009 mio marito Gaetano Montanino, guardia giurata, è stato ucciso da un gruppo di ragazzi mentre lavorava in piazza del Carmine, nel centro storico di Napoli. Aveva solo 45 anni”. È la prima testimonianza della veglia di preghiera per il Giubileo della consolazione, presieduta dal Papa nella basilica di San Pietro. “Quella notte la mia vita e quella di mia figlia sono cambiate per sempre”, ha raccontato Lucia: “In quel buio, ho trovato forza nella fede, che non ha cancellato le lacrime o la rabbia ma mi ha permesso di andare avanti, di camminare anche quando sembrava impossibile. Ho imparato che il dolore può distruggere, oppure diventare un seme di bene, se abbiamo il coraggio di affrontarlo. La mia esperienza di assistente sociale mi ha consentito di osservare la realtà con uno sguardo diverso. Ho capito che quei ragazzi non erano i soli responsabili del male fatto a mio marito, ma erano il frutto delle nostre scelte sbagliate, della nostra indifferenza verso i quartieri più difficili, dove i giovanissimi non hanno nulla e conoscono solo la violenza”. “Il giorno in cui Gaetano fu ammazzato, erano in quattro su due moto, e Antonio era alla guida di una delle due”, ha proseguito: “Era il più giovane, aveva solo 17 anni e non sapeva che presto sarebbe diventato papà. Antonio era orfano di padre, cresciuto in un quartiere difficile, e aveva trovato nella strada, e in un gruppo di coetanei, il suo rifugio. Insieme si dedicavano a rubare orologi di valore agli stranieri in città. Dopo l’omicidio di mio marito, Antonio fu condannato a 22 anni di detenzione. Nel carcere minorile di Nisida ha iniziato un percorso di recupero, ed è stato lì che, passo dopo passo, è nato in lui il desiderio di incontrarmi e chiedere perdono”. “Prima di incontrarlo, avevo paura, perché lo immaginavo un mostro”, la testimonianza di Lucia: “Davanti a me, invece, ho trovato un ragazzo che tremava, che piangeva, che chiedeva perdono, e l’unica cosa possibile è stata un lungo abbraccio. Lì ho sentito nascere, dentro di me, il desiderio e la possibilità di trasformare il dolore in qualcosa di nuovo. È nato così uno dei percorsi che oggi conosciamo come giustizia riparativa, un cammino in cui il dolore viene accolto e trasformato attraverso l’incontro, l’ascolto e il dialogo”.