“Che senso ha continuare a soffrire?”, “Non sarebbe meglio se andassi in Svizzera a morire?”, “Chi penserà ai miei figli?”, “Dov’è il buon Dio di cui lei mi parla, perché non mi aiuta?”. Sono queste, racconta in un’intervista al Sir don Tullio Prospero (nella foto), da 22 anni cappellano all’Istituto nazionale dei Tumori di Milano, le “domande profonde, vere, spesso senza risposta” che pongono i pazienti in condizioni gravi.

(Foto don Tullio Proserpio/SIR)
Alla vigila del Giubileo della consolazione (15 settembre), il cappellano spiega che “alcuni continuano a fidarsi del Signore, anche se a fatica. Altri non trovano un senso. E in quei momenti, frasi come ‘offri la tua sofferenza a Dio’ suonano come bestemmie che non aiutano, e tradiscono lo spirito del Vangelo”. Perché “le persone ammalate non sono stupide, sanno che non c’è una risposta. Ma cercano qualcuno che resti loro accanto”.
Parlando delle cure palliative, don Tullio spiega che non sono solo per il fine vita. Vanno attivate fin dalla diagnosi, come raccomanda l’Oms, insieme alle terapie e ai trattamenti. “E la morfina, quando necessaria, deve essere usata per togliere il dolore inutile. Pio XII, già nel 1957 in un discorso ai medici rianimatori, parlava della liceità degli oppiacei, anche fino alla soppressione della coscienza, per evitare dolori insopportabili”.
Gli chiediamo se in questi 22 anni c’è una storia che l’ha particolarmente colpito “Quella di Valeria – risponde –, una ragazza di 17 anni, incontrata nel 2013 poco dopo il suo ultimo viaggio a Roma durante il quale riuscì a vedere Papa Francesco. Morì a casa, dicendo: ‘Muoio con il sorriso pensando al sorriso del Papa’. Era serena, lucida, dopo un periodo di profonda disperazione. Ricevette da me l’unzione degli infermi su insistenza della madre e poi disse: ‘Adesso ho le valigie pronte’. La chiamo la mia santina Valeria – conclude sorridendo –. Sono ancora in contatto con la famiglia: ho battezzato il figlio della sorella”.