Giubileo 2025: mons. Caiazzo (Matera-Irsina), “ognuno è chiamato ad emergere dal pantano delle lamentele spesso sterili e strumentali, facendo proposte concrete”

“Oggi, ancora una volta, come Chiesa nel nostro territorio di Matera-Irsina, siamo chiamati a guardare le tante mani inaridite, le tante paralisi spirituali, la disperazione dalle tante grida di dolore a causa di ingiustizie, per essere sanati dalla presenza viva e reale di Gesù nell’Eucaristia che ci dice di tendere a lui tutte le mani. Questa è la nostra speranza”. È l’invito che ieri mons. Antonio Giuseppe Caiazzo, arcivescovo di Matera-Irsina e vescovo di Tricarico, ha rivolto ieri ai fedeli, in occasione dell’apertura dell’Anno giubilare in diocesi.
In questo nostro tempo, “a Matera come a Tricarico, a Roma come in qualsiasi altro posto del mondo, ben conoscendo le nostre debolezze e rispondendo all’invito di Gesù risorto, ci mettiamo, come Chiesa, a servizio di questa umanità che riscopriamo fragile, annunciando la speranza della misericordia attraverso quella pazienza tipica del contadino nel dissodare il terreno, seminare, attendere, trebbiare, qualsiasi altro tipo di lavoro che richiede sempre tempo, come lo richiede ogni crescita e tessitura”.
Un servizio, il nostro, che “deve mettere da parte calcoli, titoli e convenienze, aprendosi alla novità di Dio che ci meraviglia sempre, rendendo feconda la Chiesa e rispondendo come la Vergine Santa: ‘Eccomi’. Un ‘sì’ che si rinnova nel tempo e nella diversità ministeriale”.
Il Giubileo diventa così, per le nostre Chiese di Matera-Irsina e di Tricarico, “una ulteriore opportunità per essere propositivi. Mi spiego. Per la nostra gente e il nostro territorio non c’è solo bisogno di denunciare le criticità, le problematiche, le paure e le sofferenze. Questo lo sappiamo fare tutti. C’è bisogno di proposte concrete e di progetti da realizzare e concretizzare al più presto in opere. Ognuno è chiamato ad emergere dal pantano delle lamentele spesso sterili e strumentali, facendo proposte concrete. Le idee, ne sono certo, non mancano. Bisogna sposarle perché diventino realtà. Proposte che devono venire dal basso, incominciando dai giovani, dalle giovani coppie, dal mondo imprenditoriale, dalla cultura, dalla Chiesa. Le idee superano gli steccati politici e ideologici. Purché si lavori per il bene comune e non per ottenere consensi”.
Tra i tanti campi dove seminare speranza c’è “quello delle nuove generazioni. È il campo educativo che semina e va seminato a più mani: famiglia, scuola, gruppi, aggregazioni, Chiesa: tutti coinvolti, avvertendo la responsabilità e l’urgenza. Ma di campi dove seminare la speranza ce ne sono tanti. Siamo circondati, anzi spesso anche noi stessi abbiamo bisogno che qualcuno semini la speranza nel nostro terreno perché porti frutto”.
Ogni semina che rispecchia “le opere di misericordia spirituali e corporali sana le ferite del cuore, rinfranca le ginocchia dell’umanità sofferente”. La Chiesa “sa benissimo che dare da mangiare a chi è nel bisogno e nella necessità vuol dire nutrire quanti si sentono fragili perché abbandonati e pieni di paura. Così come dare da bere a chi ha sete significa, ai nostri giorni, fermarsi, dedicare tempo e ascoltare chi è solo, chi ha lasciato la sua terra in cerca di un mondo migliore, diverso”.
Tutto questo significa “riaccendere la speranza e mostrare il volto del Dio di Gesù Cristo che provvede alle necessità primarie dei suoi figli – ha concluso il presule -. Non c’è gioia più grande di quando si restituisce dignità alla persona ammalata nel cuore, nella mente, nel corpo, aiutandola a liberarsi dal peso dell’errore che ha commesso. Eppure spesso anche noi che celebriamo l’Eucaristia, la misericordia di Dio, mostriamo l’apparenza di una fede mascherata da forme devozionali che mettono a tacere quanto la coscienza ci rimprovera o teme”.

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