Quanto “umani” devono sembrare i robot per essere accettati? Questo l’interrogativo posto da Federica Cordella, associato di bioingegneria – Università Campus Biomedico, al seminario di studio “Care robot: umanoidi per la cura” che si è aperto questo pomeriggio a Subiaco, per iniziativa del Centro studi Scienza & Vita (S&V) in partnership con due atenei romani: l’Università Europea e l’Università Campus Biomedico (fino a domenica 12). “La somiglianza – ha spiegato – può generare fiducia, ma anche inquietudine. Non è solo questione di sembianze, ma di presenza: il tocco, la voce, la condivisione dello spazio”. E se i chatbot conversazionali dimostrano che” l’empatia può essere simulata anche senza corpo”, la presenza fisica “resta un elemento insostituibile per molti. Forse – ha concluso l’esperta -, ciò che rende ‘umano’ un robot non è l’aspetto, ma la sua capacità di esserci davvero, di di condividere con noi lo stesso spazio e la stessa attenzione”..
Per Francesco Scotto Di Luzio, anch’egli docente di bioingegneria – Università Campus Biomedico, “l’introduzione dei robot nel contesto delle cure palliative rappresenta una sfida e un’opportunità per ripensare il modo in cui la tecnologia può sostenere la dimensione umana”. Essi “possono offrire nuove forme di accompagnamento, pur rispettando la centralità della persona”. Di qui l’importanza di una “progettazione centrata sull’uomo” perché “dignità, autonomia, vulnerabilità non devono essere compromesse”. “La tecnologia può sostenere, ma non sostituire. E proprio qui si apre il campo della co-progettazione interdisciplinare, dove medicina e bioingegneria devono dialogare per costruire soluzioni etiche e funzionali”.