“E se la malattia che teneva legato Lazzaro fosse la paura di vivere?”. A lanciare la provocazione è stato padre Roberto Pasolini, predicatore della Casa Pontificia, nella meditazione pomeridiana di oggi in Aula Paolo VI per gli esercizi spirituali della Curia Romana, mentre il Papa sta per concludere il suo ventiseiesimo giorno di degenza al Policlinico Gemelli. “Quella paura che, purtroppo, viene rafforzata proprio all’interno dei legami più familiari che abbiamo”, ha attualizzato il religioso: “Genitori eccessivamente protettivi, figure di autorità un po’ timorose, educatori ansiosi o ansiogeni”. Un clima, insomma, “in cui la vita fa fatica a fiorire, e tutti ci sentiamo come avvolti da bene che ci impediscono di essere più noi stessi, e non quelli che agli altri aspettano da noi”. Lazzaro, ha commentato Pasolini, “si sentiva ingabbiato, oppresso da cumuli di aspettative”: in questa prospettiva, la malattia di Lazzaro può essere interpretata “come paura di vivere, ben più grave e profonda della paura di morire, perché è mancanza di libertà, di sensibilità, di creatività con cui andiamo avanti giorno per giorno”. Il “segno”, di Lazzaro, dunque, “non è tanto il fatto che Lazzaro è risorto, ma che i veri morti non erano quelli dentro il sepolcro, ma quelli che erano fuori”, stesso messaggio che si ricava dalla guarigione del cieco nato. La prima persona a cogliere questa consapevolezza è Marta, che crede alle parole di Gesù: “Io sono la Risurrezione e la vita”. “Credere alla vita eterna è qualcosa di cui abbiamo assoluto bisogno oggi, non in punti di morte”, ha affermato il religioso: “la vita eterna è necessaria per poter vivere”. “Marta non è ancora morta, ma si trova nell’ombra della morte”, ha osservato Pasolini: “Siamo i morti di domani oppure siamo i viventi di oggi? Abbiamo iniziato a credere che la vita eterna, il Signore Gesù, è qui, ora? Stiamo mettendo ali, passione, al nostro modo di vivere? Oppure anche noi, come Lazzaro, ci sentiamo avvolti dalla spirale dei doveri, delle necessità? Si tratta di verificare dove stanno le radici della nostra speranza”.