“Il dolore per Martina è troppo grande. È un grido. Un pugno. È una domanda senza risposta. È l’abisso. Ma proprio lì, nell’abisso, Dio non si ritrae. Non vi lascia. Allo stesso modo di come non ha lasciato Martina che oggi è custodita nel suo cuore, lì dove nessuna violenza potrà mai raggiungerla, e dove la felicità che desiderava nei suoi sogni di adolescente, immaginando il suo futuro, le viene donata in abbondanza dal Dio della vita”. Lo ha affermato, oggi pomeriggio, rivolgendosi direttamente ai genitori, il card. Mimmo Battaglia, arcivescovo di Napoli, nell’omelia dei funerali di Martina Carbonaro, la quattordicenne uccisa dal suo ex fidanzato ad Afragola.
E da lì “quest’oggi ci parla, da lì ci chiede non solo lacrime, ma anche verità. Non solo dolore, ma coraggio. Perché il dolore di oggi ci impone di dire, senza paura, senza ambiguità, una parola netta – ha affermato il cardinale –: Martina è morta per mano della violenza. È morta per mano di un ragazzo che non ha saputo reggere un rifiuto, un limite, una libertà, togliendo il futuro non solo a Martina ma anche a se stesso! Martina è morta per un’idea malata dell’amore. Un’idea ancora troppo diffusa, troppo tollerata, troppo silenziosa”.
Per l’arcivescovo, “questa è la tragedia che sta attraversando i nostri adolescenti e non di meno gli adulti. Una generazione che spesso cresce senza mappe, senza guida, senza veri riferimenti. Una generazione smarrita, sola, connessa eppure disconnessa dalla vita vera”.
E, ha aggiunto, “permettetemi di dire una parola, soprattutto ai ragazzi, di dire la mia preoccupazione soprattutto per quelli che non sanno più gestire la rabbia, che confondono il controllo con l’affetto, che pensano ancora che amare significhi possedere. Che vedono la donna come qualcosa da ottenere, da tenere, da non perdere mai. Che se vengono lasciati si sentono umiliati, feriti, e trasformano il dolore in odio. Un odio che uccide. È femminicidio. Chiamiamolo con il suo nome. Non è follia. Non è gelosia. Non è un raptus. È il frutto amaro di un’educazione che ha fallito. Di un linguaggio che normalizza la violenza. Di un silenzio colpevole!”.
E allora, oggi, “accanto al dolore, io sento il dovere di dire: basta. Basta parole deboli. Basta giustificazioni”.