“Diceva Papa Francesco ai detenuti, ‘I pesci grossi non sono qui’, ed è vero. Questo ci fa chiedere se vi è veramente una giustizia per tutti e una possibilità di riparazione per tutti”. Avrebbe condiviso queste parole, don Primo Mazzolari, di cui a Milano, presso la Fondazione culturale Ambrosianeum, è stato presentato il volume dal titolo “Oltre le sbarre, il fratello”. 134 pagine di scritti, risalenti agli anni ’40 e ’50 del secolo scorso, nei quali il parroco di Bozzolo – nato in una frazione di Cremona nel 1890 e morto il 12 aprile 1959 – rivela tutta la sua attenzione al mondo carcerario e della giustizia. Come, appunto, si evince dal saggio (pubblicato dalle Edizioni Dehoniane di Bologna), curato da don Bruno Bignami e don Umberto Zanaboni, rispettivamente postulatore e vicepostulatore della causa di beatificazione di don Primo, con la prefazione dell’arcivescovo di Ferrara-Comacchio, monsignor Gian Carlo Perego. A moderare la serata, don Gianluca Montaldi (Edb).
“A volte vedere, oltre le sbarre, la presenza del Cristo è scandaloso e, soprattutto, difficile. Ma se dietro le sbarre c’è un fratello significa che mi appartiene”, spiega don Zanaboni, che ricopre anche l’incarico di responsabile dell’Ufficio missionario della diocesi di Cremona, ricordando la fondazione del quindicinale “Adesso” da parte di Mazzolari, nel 1949, “per ‘tirarsi su le maniche’ nella fase di ricostruzione del Paese”.
“Mazzolari pensa che non esista giustizia senza misericordia con una visione della giustizia aperta”, ha detto, da parte sua, don Bignami che è anche direttore dell’Ufficio Cei per i problemi sociali e il lavoro. “La giustizia è nelle mani di pochi, la misericordia in quelle di tutti e, quindi, è compito di ognuno mettere le persone nelle condizioni di redenzione, per usare un’altra espressione tipica di don Primo”. Anche perché se, certo, il sacerdote cremonese non usa il termine “giustizia riparativa”, la sua visione è “relazionale e non si esaurisce con lo scontare la condanna comminata dalla giustizia, come realtà terza tra colpevole e vittima. È chiaro che si tratta di due prospettive molto diverse, ma la vera sfida rimane quella di credere nel bene, che non significa negare il male, ma ricomporlo in uno schema diverso”.
Ma come costruire strade e cammini per dimostrare nei fatti che tale percorso è possibile? Chiara la risposta di don Bignami: “La misericordia ha un ruolo educativo, perché apre al futuro, il che significa che la persona è sempre più del gesto che ha compiuto e che, quindi, anche la persona stessa può ripensarsi in modo diverso. Le comunità cristiane dovrebbero imparare ad adottare i detenuti, mantenendo rapporti e facendo capire che vi è una disponibilità ad accompagnarli in carcere e dopo. Perché il loro dramma spesso è di sentirsi abbandonanti, specie i più fragili, tanto che talvolta le solitudini di chi esce sono tali che è preferibile compiere ancora un reato per ‘andare dentro’; e sappiamo che voler tornare in carcere oggi richiede coraggio”.