” Le Unità pastorali non sono la conquista dei non praticanti e l’accontentarsi di come sono quelli che praticano, ma la ricerca di tutti assieme di metterci a disposizione gli uni degli altri in un incontro tra noi e in mezzo al quale vogliamo trovare il Signore in una comunità che lo celebra. Questo esige la corresponsabilità di tutti i battezzati, ma anche l’ascolto e la collaborazione dei non credenti che condividono la bontà della ricerca di risposte profonde, religiose, alle domande della gente”. Lo scrive mons. Domenico Sigalini, presidente del Centro di orientamento pastorale (Cop), in un editoriale per la rivista del Centro che da anni “si cimenta con il tema della comunione di vita, di attività, di proposta cristiana, di nuova evangelizzazione di alcune parrocchie messe assieme, chiamate Unità pastorali o con altri nomi (perché questo sembrava troppo riduttivo)”. Il punto di partenza – spiega mons. Sigalini – “non è mai stato il numero carente di presbiteri, ma il desiderio di rendere più missionarie le nostre parrocchie. Era percepibile facilmente la consapevolezza che il motivo per cui si fossero concentrate assieme alcune parrocchie in una sola, nonostante ci fossero tante chiese, non è la carenza di preti o l’efficienza del servizio religioso, ma la possibilità di diventare parrocchia aperta e missionaria”. Oggi cala la pratica religiosa, crescono i non praticanti, ma “le domande di senso, di significato, il bisogno di Dio, di una vita che non si cancella definitivamente con la morte rimane sempre nell’80% delle persone”, sottolinea il presule evidenziando che le Unità pastorali “valorizzano le piccole comunità che le compongono, perché in esse c’è una vitalità di dialogo con tutti molto di più che in una grossa organizzazione, che al massimo si esprime per qualche grande festa del patrono. Quindi c’è la possibilità di rompere finalmente quella comoda distinzione tra praticanti e non praticanti, quasi che i primi siano santi e i secondi atei, assolutamente incapaci di dare senso alla vita propria e di tutti. Viviamo spesso assieme, lavoriamo assieme, andiamo alla stessa scuola, abbiamo forse relazioni con lo stesso Comune… Non c’è già vita, che è sempre dono di Dio, che passa in tutti? Non c’è già voglia di vivere, desiderio di costruirsi una vita dignitosa, di trovarsi un lavoro, di costruire una famiglia? di vivere in pace e di potersi trovare pure a mangiare insieme qualche volta? di dare anche una risposta di fede alle sfide della vita?”. Il giornale ha tradotto queste domande con una parola che “forse ci disturba perché la riteniamo sinonimo di proselitismo, ricerca di clienti, magari facendo sconti per fidelizzarli di più: missionarietà, capacità di cercare assieme le risposte, comunicarci vicendevolmente quelle che noi riusciamo a far nascere nel nostro cuore, che ci vengono dalle esperienze, anche di dolore, che abbiamo vissuto, di solidarietà che abbiamo ricevuto, di dono di Dio che i nostri genitori ci hanno trasmesso, di crisi nere in cui ci siamo imbattuti, e grazia di Dio di essercene usciti più credenti di prima”. Per mons. Sigalini “laddove non c’è il presbitero si potranno anche inventare assemblee di preghiere domenicali in cui, proprio per evitare che sia ritenuta una messa secca (senza consacrazione del pane e del vino in Corpo e Sangue di Cristo), è bene non si usino particolari vestiti liturgici… Sono i papà e le mamme di famiglia o i nonni e le nonne o gli stessi ragazzi e giovani, che testimoniano a sé e a tutti la bellezza dell’incontrarsi nel nome di Gesù, di ascoltare la sua Parola che non ritornerà a Dio senza aver provocato ciò per cui è stata mandata. Non si tratta, per evitare malintesi, di fingere di fare una assemblea generica che poi diventa preghiera, ma di incamminarci con decisione verso un nuovo modo di pregare e di accoglierci gli uni gli altri, ricostruendo vite di fede nella libertà e nella volontà di ciascuno”.