“Dobbiamo riconoscere che nella nostra cultura è offuscato, se non addirittura smontato, l’orizzonte escatologico, cioè l’idea che la storia abbia una direzione e sia incamminata verso una bellezza che va al di là di essa. Senza l’attesa della sua venuta, il cristianesimo si riduce a morale, a ideologia, a un buon comportamento”. Lo ha detto mons. Antonio Di Donna, vescovo di Acerra e presidente della Conferenza episcopale campana (Cec), presiedendo questa mattina la celebrazione eucaristica conclusiva della 75ª Settimana liturgica nazionale.

(Foto Doriano Vincenzo De Luca)
Secondo il presule, “la liturgia ha a che fare con l’orizzonte della speranza”. Da qui il richiamo a una delle più antiche preghiere cristiane: “Maranathà, vieni Signore!”. “La liturgia sostiene la speranza delle nostre comunità – ha sottolineato – nell’impegno dell’annuncio del Vangelo, nella purificazione delle forme di pietà popolare, nella qualità della carità, nella difesa del creato e nella custodia del lavoro, spesso assente o precario. Sostiene la speranza anche nelle aree interne della nostra regione, a rischio di spopolamento lento e inesorabile”.
Un passaggio centrale dell’omelia ha riguardato lo stile delle celebrazioni: “Faccio fatica a pensare che possano nutrire la speranza liturgie senza aggancio con la vita, assemblee stanche e passive, atteggiamenti di presidenza eucaristica segnati da fissismo, caricatura esasperata o sciatta improvvisazione. Sono tutti segni di un esasperato personalismo celebrativo”.
Per questo, mons. Di Donna ha rilanciato l’appello a una liturgia “seria, semplice e bella”: “Non solo seria, non solo semplice, ma anche bella. Bella per l’equilibrio tra Parola, silenzio e canto. Bella per l’accoglienza che si respira. Bella per l’omelia fedele ai testi e capace di illuminare la vita quotidiana. Abbiamo bisogno di una liturgia così, perché Dio non è noioso: Dio è bellezza”.
Infine il vescovo ha ricordato le parole di Sant’Agostino, convertito anche dalla bellezza del canto liturgico nella Chiesa di Milano: “Quelle voci vibravano nelle mie orecchie e la verità si insinuava nel mio cuore”. Da qui l’invito finale: “Curiamo le nostre liturgie, perché siano davvero capaci di nutrire la speranza del nostro popolo”.