Riguardo alle richieste di asilo “non c’è mai stata in Europa e in Italia un’invasione o un’emergenza, però è stata proclamata tanti anni fa e in vista di questo sono stati attuati pacchetti sempre più stringenti come quello approvato ieri dall’Ue. Per cui ciò che era impensabile un po’ di anni fa sta diventando la normalità. Ma noi dobbiamo essere capaci di vedere che ciò che ci viene proposto come normalità continua ad essere una violazione dei diritti delle persone”. Lo ribadisce la sociologa Cristina Molfetta, curatrice del Report 2025 sul diritto d’asilo della Fondazione Migrantes, parlando al Sir a margine della presentazione di oggi a Roma, alla Pontificia Università Urbaniana. Ieri il Consiglio affari interni dell’Unione europea ha votato infatti una ulteriore stretta sulle migrazioni riguardante rimpatri e lista dei Paesi sicuri, per cui se una persona in fuga transita da un Paese terzo sicuro potrebbe anche essere rimpatriato all’interno di quel Paese. “La proposta è stata votata ieri ma in realtà era sul tavolo da molti mesi ed è la direzione in cui l’Unione europea sta provando ad andare su asilo e immigrazione”, precisa Molfetta. “Questo è il motivo per cui abbiamo scelto come sottotitolo del rapporto ‘Le speranze recluse’: l’idea forte è che per le persone che scappano – in aumento dalla seconda guerra mondiale perché aumentano le guerre, la fame, il cambiamento climatico – è sempre più difficile arrivare in Unione europea o negli Stati Uniti. Nei nostri Paesi i richiedenti asilo sono in diminuzione da anni perché da anni stiamo provando a fare una politica di tenerli sempre di più fuori dal nostro continente e quindi dalla possibilità di richiedere protezione”.
“Non è solo una politica di esternalizzazione dei confini – afferma Molfetta -. Con queste norme siamo arrivati ad una vendita della responsabilità della protezione. Quello che ha votato ieri l’Ue non lo rende ancora possibile, però fa intuire la direzione in cui vorrebbero andare. Questo ragionamento, portato all’estremo, vuol dire che un domani, perché al momento non abbiamo nessun accordo per rimpatriare in Paesi terzi, una persona che scappa la rimandiamo in un altro Paese che si deve far carico e che prenderà le persone perché sarà povero e accetterà di prendere i nostri soldi”. “Pagare per spostare persone che hanno bisogno di protezione non è un bello scenario, non dice bene di noi”, sottolinea. “Il rimpatrio, la lista dei Paesi sicuri, la possibilità di considerare sicuri anche i Paesi di transito – puntualizza – sono ulteriori strumenti all’interno di questa logica di provare a tenere sempre di più fuori dalle nostre frontiere le persone che dovremmo proteggere”.
Questo ragionamento inoltre “non agisce sulle cause che portano le persone a scappare, ma sulle persone che già sono vittime di queste cause. E non facciamo niente per prosciugare il bacino che porta le persone a scappare, perché le guerre aumentano e non riusciamo a pacificarle, aumentano le armi nel mondo, c’è una corsa al riarmo, non facciamo abbastanza per il cambiamento climatico. Quindi viene omessa tutta la parte di responsabilità rispetto alle cause. Continuiamo ad attuare meccanismi per provare a tenerli fuori o per erodere i diritti che avrebbero una volta arrivati qui e questo è abbastanza triste”. Questo è “un meccanismo generale, in Ue e nel mondo, in cui stanno saltando i luoghi di composizione dei conflitti, le convenzioni internazionali non vengono rispettate, si ritorna a uno scenario dove vale la legge del più forte. Però sappiamo benissimo che le persone che fuggono sono sicuramente tra i più fragili e pagheranno un prezzo ancora più alto”.
Riguardo all’Italia e al modello Albania “bisognerà vedere una volta che il governo metterà sua idea sul piatto quale sarà la sua idea di applicazione di questo regolamento di rimpatrio ma dovrebbe fare un accordo diverso, non può utilizzare quello che c’è adesso”. Il rapporto evidenzia anche che a livello generale in Unione europea le persone incontrano molti ostacoli prima di riuscire ad arrivare. “E di quelle che arrivano e si analizzano le domande, a livello europeo c’è un riconoscimento del 51%, il nostro Paese è fermo al 36% in prima istanza. Poi le persone fanno ricorso e si arriva ad un riconoscimento di più del 75% – spiega la curatrice del report -. Questo vuol dire che le persone hanno un reale bisogno di protezione internazionale ma c’è sempre un tentativo politico di abbassare questa possibilità, esponendole ad un percorso più lungo senza tutele”.