“Dire che l’uso degli psicofarmaci ‘è raddoppiato’ può sembrare allarmante, ma il dato va contestualizzato: in Italia, la prevalenza è passata dallo 0,26% allo 0,57%. Si tratta di un aumento, certo, ma i livelli restano molto più bassi rispetto ad altri Paesi europei a noi vicini. In Francia le percentuali sono circa tre volte superiori, e in Spagna ancora più alte — per non parlare dei Paesi nord-europei. Pensare che solo l’Italia abbia trovato il ‘giusto equilibrio’ e che tutti gli altri sbaglino sarebbe un errore: come spesso accade, la verità sta nel mezzo.
Non tutti i ‘bambini’ sono uguali”. Lo scrivono i coordinatori della Rete che riunisce i primari dei reparti di emergenza psichiatrica per l’età evolutiva (0–18 anni), Stefano Vicari (responsabile di Neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza dell’Ospedale pediatrico Bambino Gesù) e Gabriele Masi (responsabile di Psichiatria e Psicofarmacologia dell’Irccs Fondazione Stella Maris), sull’uso degli psicofarmaci in età pediatrica, facendo riferimento ai dati del Rapporto OsMed 2024 sull’uso dei medicinali in Italia, realizzato dall’Agenzia italiana del farmaco (Aifa).
Parlare genericamente di “psicofarmaci ai bambini”, per i due esperti, “è impreciso. L’aumento riguarda l’intera fascia sotto i 18 anni, ma con un picco tra i 12 e i 17 anni, cioè soprattutto negli adolescenti. È in questa età che emergono le forme più complesse e severe di disagio psichico, che spesso richiedono, accanto alla psicoterapia e al sostegno familiare e sociale, anche un intervento farmacologico mirato, che può favorire gli altri interventi”.
Il vero problema è anche “chi resta senza cure”.
Parlare solo della “prevalenza d’uso” non basta: “Bisogna chiedersi quante persone avrebbero effettivamente bisogno di un trattamento e non lo ricevono”.
Sulla base di stime epidemiologiche nazionali ed internazionali sulla prevalenza dei disturbi psichiatrici in età evolutiva, “in Italia solo 1 bambino o adolescente sui 15-20 che presentano disturbi riceve una terapia farmacologica. È la percentuale più bassa tra i Paesi europei a noi più simili. È giusto preoccuparsi per chi assume un farmaco, ma dovremmo preoccuparci altrettanto per coloro (molti di più) che non ricevono un trattamento che potrebbe aiutare i ragazzi e le loro famiglie – chiariscono Vicari e Masi -. Questa consapevolezza apre una riflessione importante, non solo clinica ma anche etica e deontologica, su come la società e i servizi sanitari rispondono ai bisogni di salute mentale dei più giovani”.
Per i due esperti, “la vera sfida non è solo limitare l’uso dei farmaci, ma garantire che chi ne ha davvero bisogno possa accedere a cure appropriate, integrate e tempestive. Parlare di salute mentale nei più giovani significa promuovere una cultura dell’ascolto, della competenza e della cura, perché il benessere psicologico dei ragazzi è – e deve restare – una responsabilità di tutti”.