L’inchino e la gestualità del corpo

Piegare la statua, farle fare un percorso “obbligato” per costringere il corteo di una processione a passare davanti a questa o a quella abitazione è un gesto di sudditanza tante volte accompagnato dall’ostentazione di una cospicua e pubblica offerta fatta al santo. Ma se è vero questo, è altrettanto vero che l’inchino di una statua, il fermarsi (anche per un attimo) di una processione presieduta dal sacerdote, con tanto di autorità civile e militare, è una vera e propria legittimazione che il boss vuole ricevere. Al mafioso-ndranghetista importa poco la devozione cristiana, perché vive una vita antievangelica fatta di soprusi, atti criminali, perfino di omicidi e vendette. L’inchino è qualcosa di più. È un fatto culturale

(Foto ANSA/SIR)

Piegare la statua, farle fare un percorso “obbligato” per costringere il corteo di una processione a passare davanti a questa o a quella abitazione è un gesto di sudditanza tante volte accompagnato dall’ostentazione di una cospicua e pubblica offerta fatta al santo. Ma se è vero questo, è altrettanto vero che l’inchino di una statua, il fermarsi (anche per un attimo) di una processione presieduta dal sacerdote, con tanto di autorità civile e militare, è una vera e propria legittimazione che il boss vuole ricevere. Al mafioso-ndranghetista importa poco la devozione cristiana, perché vive una vita antievangelica fatta di soprusi, atti criminali, perfino di omicidi e vendette. L’inchino è qualcosa di più. È un fatto culturale che pervade e penetra nelle midolla della socìetas calabrese più di quanto immaginiamo. Il capo mafia, il capo bastone, vuole l’inchino e gli basta. Non vuole altro, non pretende nulla da un popolo di poveri o di pezzenti. Vuole solo quel riconoscimento, quell’atto di sudditanza che in passato (quando si usavano le coppole) era togliersi il cappello in sua presenza, oppure passando davanti alla sua abitazione. Una vera e propria gestualità (liturgia del corpo), una meta-comunicazione fatta di baciamano, inchini, dallo scoprirsi il capo o abbassare la testa. Lì il capo si sente capo, il boss è soddisfatto nel suo super-Io che trova nei gesti della debolezza e della paura un terreno fertile dove seminare i semi della malapianta. Essa attecchisce proprio in questo terreno già preparato da silenzi, dall’obbligo del rispetto dovuto, dalle paure di essere messo al bando dalla comunità, e poi cresce con continue manifestazioni di ossequio, pretese assurde, fino a disporre della vita e delle cose degli altri. Alla Chiesa il compito di educare e la forza profetica di indignarsi, allo Stato quello di vigilare ed intervenire, al cittadino (che non va lasciato solo) il coraggio di non abbassare il capo davanti ai “signori” durante le diverse processioni liturgiche ma anche della vita. Loro ci provano, ci provano sempre, in ogni occasione, ma noi dobbiamo spezzare in qualche modo questa spirale.

(*) direttore del settimanale diocesano “Parola di Vita”- Cosenza

 

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