Cure palliative. Bellini (psicologa in hospice): “In 20 anni nessuno dei nostri pazienti ha mai chiesto di morire”

Una valida risposta al dolore e alla sofferenza del fine vita sono le cure palliative, ma purtroppo, spiega la psicologa Maria Elena Bellini, "sono ancora per molti delle perfette sconosciute". Eppure, assicura, in 20 anni di lavoro in hospice, nessun paziente ha mai chiesto di morire. Anzi, le cure palliative consentono di "colmare di senso e di Vita con la V maiuscola anche il tempo che rimane"

(Foto Hospice San Giuseppe)

Oltre 2.500 posti letto in 230 strutture. E’ la fotografia degli hospice presenti sul nostro territorio, concentrati soprattutto nelle Regioni del Nord e del Centro. “Tu sei importante perché sei tu e noi faremo di tutto per curarti, perché la tua vita sia vita fino all’ultimo”, diceva Cicely Saunders, pioniera delle cure palliative e fondatrice nel 1967 del St. Christopher Hospice a Londra, prima struttura residenziale per il controllo del dolore dei malati terminali. A ricordarlo è Maria Elena Bellini, psicologa dell’Hospice Casa San Giuseppe di Gorlago (Bergamo). Nata nel 2003, la struttura comprende 13 stanze perché, ci spiega Bellini, “per mandato gli hospice devono essere molto piccoli. Saunders voleva che assomigliassero ad una casa per garantire, oltre alla qualità dell’assistenza, privacy e intimità”.

Il tempo che rimane a questi pazienti

“non è attesa di morte, ma deve essere tempo da colmare di senso e di Vita con la V maiuscola”,

prosegue la psicologa. Per questo le cure palliative, messe in atto da un’équipe multidisciplinare, includono oltre al sollievo dal dolore anche la presa in carico degli aspetti spirituali, psicologici e relazionali, la totalità della persona nelle sue dimensioni fisica e metafisica, che, seppure inguaribile, è sempre curabile. Nell’Hospice San Giuseppe l’accesso dei familiari è h24; ogni stanza ha una poltrona letto per consentire ad uno di loro di rimanere anche la notte. Bellini lavora a contatto con le persone malate, con i familiari, con i volontari che definisce “presenza importantissima”. “Laddove è possibile – racconta – consigliamo anche delle uscite. Il giorno di Natale alcune persone sono andate a pranzo a casa e poi sono rientrate”.

Hospice San Giuseppe

Nel loro Messaggio per la 45ma Giornata per la vita del 5 febbraio, i vescovi italiani affermano che la morte non è mai una soluzione… Le cure palliative possono essere una risposta in una situazione di grande sofferenza e inguaribilità? “Sono pienamente convinta – risponde – che se fossero più diffuse la domanda di eutanasia diminuirebbe in modo significativo;

purtroppo le cure palliative sono ancora per molti delle perfette sconosciute”.

L’applicazione a macchia di leopardo della legge 38/2010 non ne garantisce infatti  l’accesso in modo uniforme sul territorio. Di qui, afferma Bellini che fa parte del Tavolo degli hospice cattolici promosso dall’Ufficio nazionale per la pastorale della salute della Cei guidato da don Massimo Angelelli, “il nostro impegno ad essere testimoni e promotori di una cultura delle cure palliative.

Dal 2004 lavoro in questo ambito e richieste di eutanasia in hospice non ne sono mai arrivate.

Nel momento in cui riesco a farmi carico del tuo dolore globale – fisico, psicologico, sociale e spirituale – nel momento in cui accolgo i tuoi bisogni e mi metto al tuo fianco per sollevarti dalla sofferenza e accompagnarti, nel fine vita questo può realmente fare la differenza”. Per la psicologa, che si occupa anche di formazione degli operatori, le parole d’ordine sono accogliere ed esserci. In hospice, racconta, arrivano “persone provenienti da percorsi di malattia frastagliati, da ospedali dove sono stati visti a pezzi, esaminati nei loro organi. Qui cercano un compagno di viaggio; accoglierli significa stare accanto, offrire tempo e ascolto. Cercano qualcuno che prenda una sedia e si sieda accanto al loro letto, disposto ad esserci, a condividere con loro l’ultimo pezzo di strada.

C’è una dignità anche nel gesto del morire, ed io lo tocco con mano quotidianamente”.

Un universo sfaccettato, quello degli stati d’animo di chi sa di non avere più molto tempo da vivere: “C’è chi vive la terminalità con estrema consapevolezza e affronta coraggiosamente la morte; c’è chi invece ha bisogno di negarla fino all’ultimo istante; ci sono persone arrabbiate; c’è anche chi, mosso da profonda fede, qualsiasi fede, attende e vive la morte con gioia. Una donna di 48 anni, alla quale era stato comunicato che purtroppo non c’era più nulla da fare, mi ha risposto semplicemente: Inshallah”.

Ma come “staccare”, come difendersi da queste situazioni ad alto impatto emotivo? “Nel tempo – risponde sorridendo – i miei colleghi ed io abbiamo imparato a costruirci dei Dpi (dispositivi di protezione individuale, ndr) emotivi. Dobbiamo essere in grado di interrogarci in profondità e chiederci come stiamo noi, non solo le persone che seguiamo”. Importante è anche il lavoro in équipe: “Ho appena avuto un colloquio intenso… andare alla macchina del caffè e poter condividere con un collega la fatica e le emozioni del momento ha un valore enorme”. Strategico è sviluppare buoni rapporti con i colleghi di équipe: “in molti momenti ci siamo sostenuti a vicenda”. Fatica ma anche bellezza: “sì, perché nel prendersi cura c’è una bellezza inimmaginabile”.

Qual è il valore aggiunto di un hospice di ispirazione cristiana?  “L’apertura alla dimensione della speranza nella consapevolezza che la fine riguarda solo la vita terrena. La fase terminale della vita è spesso il tempo degli interrogativi sulla propria esistenza, sul senso del dolore e di ciò che si sta vivendo, e può diventare anche il tempo della ricerca di Dio: l’hospice cattolico deve saper rispondere ai bisogni spirituali e religiosi dei pazienti. Anche il modo di lavorare degli operatori può dare una testimonianza di fede”.

 

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