Francesco, inchiodato dalla Sla: “Tocca a tutti noi aiutare Mario a non morire”

Ha fatto scalpore il caso del tetraplegico che ha chiesto il suicidio assistito perché la sua condizione gli è divenuta insostenibile. Ma c’è anche chi, pur martorizzato e martirizzato, con un corpo che non risponde più agli slanci del pensiero ed agli stimoli della mente, sceglie invece la vita. Sceglie di vivere. Francesco Sala da più di cinque anni è malato. Ha la Sla, che lo condanna all’immobilità, lui che immobile non lo è mai stato, che esalta la sua esistenza, interagisce, considera, guarda, ragiona

(Foto Portalecce)

La cronaca, come spesso succede, sovverte le priorità e ci costringe a rimodulare convinzioni: è di questi giorni la notizia della richiesta di suicidio assistito da parte di un uomo di 43 anni, tetraplegico, Mario (nome di fantasia), il cui peso di vivere, evidentemente, è per lui divenuto insostenibile. Il Comitato etico ha dato parere favorevole al suo appello, stante alcune incontrovertibili condizioni, che sono la piena capacità di intendere e di volere della persona interessata; che la patologia da cui è affetta sia irreversibile e portatrice di gravi sofferenze fisiche o psichiche; che stia sopravvivendo grazie solo a trattamenti di sostegno vitale. Si ripropone coì la questione relativa al fine vita. Eutanasia – che in Italia è illegale – e suicidio medicalmente assistito. Mario ha scelto quest’ultimo. Vuole porre termine alle sue sofferenze; ha deciso di autosomministrarsi il farmaco letale. Ha scelto di morire.
Ma c’è anche chi, pur martorizzato e martirizzato, con un corpo che non risponde più agli slanci del pensiero ed agli stimoli della mente, sceglie invece la vita. Sceglie di vivere.Francesco Sala da più di cinque anni è malato. Ha la Sla, che lo condanna all’immobilità, lui che immobile non lo è mai stato, che esalta la sua esistenza, interagisce, considera, guarda, ragiona. Francesco vuole stare a questo mondo, anche nelle strazianti condizioni in cui è costretto.
“Non posso rimanere indifferente riguardo questo caso – dice – e voglio far sentire la mia voce, perché la questione mi chiama direttamente in causa. Sono un malato di Sla, ufficialmente dal 13 giugno 2016, giorno in cui ho avuto la diagnosi certa della mia patologia. La mia vita non è appesa a un filo, ma a dei tubi che mi nutrono e mi fanno respirare. Il problema fondamentale è sempre quello di salvaguardare la dignità e l’umanità di ogni malato”.

Ed allora come ci si deve porre dinanzi a situazioni del genere?
Penso che non si possa negare ad alcuno il diritto di vivere una vita dignitosa. Il problema è a monte: come mai nessuno si chiede perché un uomo, qualsiasi uomo, affetto da una patologia neurodegenerativa, o altra fortemente invalidante, possa arrivare, al culmine della parabola della malattia, a trovarsi dentro un tunnel senza uscita che lo porta inevitabilmente alla disperazione? Perché una madre o un medico si devono arrogare il diritto di decidere se un essere umano possa vivere o no? Chi può dire cosa un essere umano, anche se con gravi handicap, può rappresentare o cosa possa ancora dare alla propria famiglia o alla società? Chi può dire qual è il confine tra uccidere qualcuno per evitargli una sofferenza o assecondare l’egoismo di chi, sotto l’influenza di una società che ci vuole sempre perfetti e al massimo delle nostre prestazioni, decide che un essere umano è un peso per la società?

Quindi?
Quindi la questione va affrontata subito, immediatamente, appena la refertazione infausta apre un abisso nella vita di un uomo. L’ammalato, lo posso dire con cognizione di causa, a volte è lasciato solo. Le istituzioni si limitano ad applicare dei protocolli, che però non guardano all’uomo nella sua interezza, ma solo al suo corpo. È questa la dicotomia che ha aperto dibattiti che si ripetono da sempre. La malattia può toglierti tutto, il movimento, l’autosufficienza, ma non la tua identità di persona. Se l’uomo, il singolo uomo, diventa misura di tutte le cose, questo porta all’impossibilità che vi sia un criterio assoluto, e apre la strada soltanto a criteri relativi, validi al massimo per un individuo. È un dibattito aperto da circa 2400 anni, che, al bisogno, ciclicamente, torna fuori. Ma è un circolo vizioso, che induce a pensare che non esistano valori morali assoluti, e quindi nemmeno un bene assoluto, ma solo qualcosa che è più ‘utile’, o più ‘conveniente’, e perciò più ‘opportuno’. Questa è la logica che spinge a considerare, di fronte alla sofferenza e al dolore di un uomo, la decisione di porre fine alla sua esistenza.

Mario, dunque, ha deciso di morire esclusivamente perché lasciato solo dinanzi alla sofferenza?
Credo di sì. Alla volontà di Mario di togliersi la vita, dobbiamo contrapporre una comunità non che lo aiuti a morire, ma che lo sostenga nei momenti di disperazione e di sofferenza psicologica, una comunità che presti aiuto e affiancamento e non che lotti per individuare quale possa essere il farmaco più idoneo ad ucciderlo.

Considerazione, la tua, che apre a scenari etici, che vanno al di là dell’aspetto medico o scientifico. Quali devono essere allora le parole d’ordine secondo te, per affrontare la questione in una maniera più compiuta?
Accoglienza e responsabilità. Su questi cardini, maturati interiormente, si deve condurre ogni essere umano alla scoperta di sé e dello scopo della propria vita come dono per il mondo intero. Sensibilizzare e promuovere una cultura dell’aver cura, significa infondere la speranza di un mondo che si interroga sul valore della propria umanità. Una malattia invalidante, come quella che si è impossessata delle mie fibre, stravolge tutti i sistemi di riferimento, proietta in un pianeta di marziani pur continuando a vivere su questa Terra. L’ammalato non è un osservatore passivo, ma un attore del suo destino.

Ed il dolore? Come si affronta il dolore?
Il dolore generalmente non è accettato, è il ‘non senso’ della vita. Come trovare in esso quel cambiamento che possa dare un significato al nostro essere uomini?

Come trovare nell’immobilità più totale del corpo il senso vero della vita?

È una grande sfida, che impone una rivoluzione copernicana di tutti i sistemi di riferimento. Eppure, questa è la mia esperienza: oggi io posso dire che di fronte alla malattia ho trovato il vero senso della vita!

Facciamo tutti parte di un progetto superiore, Francesco. È questo il principio che vuoi veicolare?
Io sono un semplice strumento nelle mani di Dio, ma non posso esimermi, in questo preciso momento, dal dire che la vita va vissuta fino in fondo. La vita è un dono d’amore, e come tutti i doni non va rimandato al mittente. Questo è il mio messaggio per tutti, sani e malati. Se la malattia è rara, la persona è addirittura unica!

(*) articolo originariamente pubblicato su PortaLecce.it

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