Don Juan Carlo (cappellano ospedaliero): “Da paziente ho imparato a capire meglio quale sofferenza subisce ogni contagiato”

Per ben due volte il virus ha intaccato il suo fisico, ma non ha certo minato la sua indole e, soprattutto, il suo ministero sacerdotale dedicato, in questo tempo di pandemia, agli ammalati di Covid-19. Don Juan Carlo Muñoz Caceres è parroco a Santa Madre di Dio, nella diocesi di Macerata-Tolentino-Recanati-Cingoli-Treia e cappellano presso il nosocomio del capoluogo e il Covid Hospital di Civitanova Marche. Da ottobre 2020 si divide tra le due strutture sanitarie con una missione intrisa di “positività”: portare loro il conforto necessario nel momento della prova e della sofferenza. Al Sir racconta il suo incontro con il virus e la sua attività in ospedale.

Per ben due volte il virus ha intaccato il suo fisico, ma non ha certo minato la sua indole e, soprattutto, il suo ministero sacerdotale dedicato, in questo tempo di pandemia, agli ammalati di Covid-19. Don Juan Carlo Muñoz Caceres è parroco a Santa Madre di Dio, nella diocesi di Macerata-Tolentino-Recanati-Cingoli-Treia e cappellano presso il nosocomio del capoluogo e il Covid Hospital di Civitanova Marche. Da ottobre 2020 si divide tra le due strutture sanitarie con una missione intrisa di “positività”: portare loro il conforto necessario nel momento della prova e della sofferenza.

“Un alieno che voleva impadronirsi di me e non voleva andarsene”. Don Juan Carlos, lei ha definito il coronavirus con queste parole che ben tratteggiano la condizione di contagiato che ha contratto il Covid-19 sia l’anno scorso che quest’anno, nonostante il vaccino. Cosa è accaduto esattamente?
A dicembre dell’anno scorso avevo fatto il test sierologico per vedere il livello di anticorpi ancora presenti nel mio corpo, ma non ce ne era praticamente traccia. Nove mesi prima avevo avuto il virus in modo asintomatico, leggero. Esattamente un anno dopo, a marzo 2021, decido di farmi il vaccino: non rappresentavo un soggetto a rischio, ma lo ero per il servizio che svolgevo. Dopo cinque giorni dalla prima dose del siero, ho iniziato ad avere dei sintomi influenzali, come male di testa, febbre alta e una forte tosse, considerati come postumi dell’iniezione vaccinale. Tre giorni dopo decido comunque di fare il tampone per precauzione: è risultato positivo, avevo contratto nuovamente il Covid-19. Ho resistito ancora un po’ e poi sono stato trasferito al Pronto soccorso. Malgrado la diagnosi di inizio polmonite, ringraziando il cielo, non ho mai avuto bisogno di ossigeno o di essere intubato e mi ritengo molto fortunato. Ricoverato al reparto di Chirurgia allestito per i pazienti affetti da coronavirus, ho ricevuto una terapia mirata che mi ha riportato in salute. Dopo dieci giorni di ospedale, sono stato stato dimesso.

Quando ha iniziato ad assistere i malati e in quali reparti esattamente?
Da ottobre dello scorso anno, quando praticamente è iniziata praticamente la seconda malaugurata ondata, grazie alla sensibilità dei medici di Rianimazione del Covid Hospital di Civitanova, di Daniela Corsi, direttrice dell’Area Vasta 3, e di Carlo di Falco, direttore medico del Presidio Ospedaliero Unico di Macerata, Civitanova Marche, Camerino e San Severino, ho iniziato ad accompagnare i pazienti nel Covid center e Pronto soccorso di Civitanova, e nella struttura Malattie infettive e Medicina di urgenza di Macerata. Quattro realtà sanitarie che in questi terribili mesi hanno lavorato full time, vale la pena sottolinearlo.

Da paziente ricoverato e da sacerdote impegnato in questa che è una vera e propria “guerra” contro il nemico invisibile quale insegnamento ha tratto?
Da paziente ho imparato a capire meglio quale sofferenza subisce ogni ricoverato contagiato gravemente. Il virus, e forse le varianti in modo specifico, attaccano con aggressività ogni persona, compresi coloro che non hanno malattie pregresse, come il sottoscritto. Nonostante tutto questo tempo condiviso con gli ammalati di Covid-19 non mi ero mai accorto della vera ferocia del virus, fino a quando non l’ho vissuta sulla mia pelle. Questa esperienza, inoltre, anche come sacerdote impegnato in corsia mi ha aiutato a capire quanto siano importanti la presenza e l’affetto dei propri cari, perché l’isolamento e la mancanza di contatto influiscono moltissimo sul miglioramento o peggioramento delle condizioni fisiche. Ora posso comprendere ancor meglio la sofferenza di persone più anziane o affette anche da altre patologie… Ho apprezzato enormemente, poi, il lavoro svolto da tutti gli operatori sanitari, oss, infermieri e medici, che, dopo un anno orribile, riescono a portare avanti, spesso con orari massacranti, un servizio fatto con amore e competenza.

Quale messaggio vorrebbe lanciare a quanti, a vario titolo, si prodigano in prima linea per arginare gli effetti di questa terribile epidemia?
Noi uomini e donne di fede non possiamo avere paura, bensì fede in quel Gesù che venuto tra noi per prendersi cura dei lebbrosi, degli emarginati, di tutti i bisognosi. Siamo alla sua sequela in tutto e non possiamo fare altrimenti. La nostra missione è fondamentale nella guarigione di ogni malattia, e in modo particolare in quella da coronavirus, perché la presenza e l’amore guariscono. Questa stessa missione ha senso più che mai oggi, poiché ogni giorno abbiamo la conferma che non siamo solo corpo ma siamo anche spirito e anima. E, come religiosi, siamo chiamati a offrire un balsamo spirituale a tutti pazienti che incontriamo quotidianamente in ospedale:  sono in tanti ad aspettare la visita del sacerdote che testimonia Cristo e che può portare un messaggio di speranza a chi è stanco e deluso, a chi non ce la fa più e non vede l’ora di poter tornare a casa. Infine, sento di dire che in questo momento storico in cui l’epidemia ha preso il sopravvento su tante altre tragedie non solo sanitarie, ciascuno di noi è chiamato ad essere solidale. Se rimaniamo uniti nel far fronte alle diverse, complesse e drammatiche situazioni che la nostra società sta attraversando, riusciremo a superare questo durissimo periodo. E allora sarà vero che l’unione fa la forza.

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