“Accanto ai malati ho imparato a sperare perché ho visto la grazia operare nelle loro vite”. Lo racconta in un’intervista al Sir don Massimo Angelelli, direttore dell’Ufficio nazionale per la pastorale della salute Cei, rievocando la propria esperienza di cappellano ospedaliero in occasione dell’odierna Giornata mondiale del malato. “Noi percepiamo l’idea della sofferenza come una disgrazia, in qualche modo una punizione – esordisce -. Non è così: la malattia è un’esperienza della vita e come tale va vissuta. Non ha un valore positivo ma può diventare un’occasione per rivedere il proprio stato di vita. Accanto ai malati impariamo moltissimo”.
Come si fa ad essere “angeli di speranza”, come chiede il Papa, in una corsia d’ospedale dove l’organizzazione sanitaria impone ritmi frenetici a medici e infermieri, spesso costretti a turni massacranti?. Per Angelelli ciò che oggi manca è il tempo per le relazioni, “componente essenziale della cura, purtroppo silenziata e azzerata dall’attuale organizzazione sanitaria. Oggi ci troviamo di fronte a malati che, nonostante somministriamo loro una terapia, non si sentono curati; a familiari che si rendono conto che il loro caro soffre, ma nessuno lo guarda; a curanti chiamati ad erogare terapie nel modo più rapido ed efficiente possibile mentre vorrebbero soprattutto prendersi cura delle persone”. Insomma, “insoddisfazione e scontento serpeggiano anche tra il personale sanitario”. Come intervenire? “E’ tutto il modello organizzativo, troppo incentrato sul concetto di prestazione, che deve essere cambiato. Non è solo questione di risorse economiche – assicura il responsabile della Pastorale della salute Cei -; oggi la sanità ha bisogno di un pensiero nuovo e coraggioso, che tenga insieme i bisogni (e i diritti) dei cittadini e i diritti dei curanti”.