“Faccio lo psico-oncologo e un giorno ho dovuto spiegare una diagnosi di leucemia a un bambino del bosco. Per fargli capire cosa stesse succedendo ci siamo incontrati lì, dove le parole non arrivavano ma il gioco sì. Ho pensato a lui in questi giorni, mentre si parla dell’ormai caso mediatico della ‘famiglia del bosco’ non serve attribuire colpe, serve proteggere i bambini senza spezzare gli affetti che li tengono interi”. Lo afferma Damiano Rizzi, psicologo clinico e presidente di Fondazione Soleterre, in merito alla cosiddetta “famiglia del bosco”. “Il problema nasce nel momento in cui ci si chiude troppo, quando diventa un mondo a sé. Quando un bambino non ha più pari, conflitti buoni e differenze l’infanzia diventa un fatto privato e il mondo resta fuori. E i figli non sono proprietà privata della famiglia, ma persone con diritti propri: lo dicono la Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e la psicologia dello sviluppo”, evidenzia Rizzi, che precisa: “Quando la vita stringe, il bosco sembra l’unico posto dove respirare ma c’è un punto che la psicologia non lascia scappare: se resti solo troppo a lungo, anche il bosco fa male e perdersi dentro la natura è pericoloso perché per ritrovarsi davvero prima o poi bisogna tornare agli altri. Un bambino può crescere ovunque ma non senza altri bambini con storie diverse, regole diverse, modi diversi di parlare e pensare. Questo è quello che la psicologia chiama eterogeneità relazionale: sono le differenze, non le somiglianze, a costruire davvero la capacità di stare nel mondo. Il gruppo è cura preventiva e laboratorio emotivo”.
Il presidente di Soleterre conclude: “Quello che serve ora non è colpevolizzare, ma assumersi responsabilità: rete, accompagnamento, presenza. Proteggere i bambini senza demonizzare chi, magari, stava cercando di farlo a modo suo”.