
Che cosa provano i ragazzi e le ragazze che affrontano la disforia di genere in età evolutiva? Come ci si sente quando si vive in un corpo che non si avverte come proprio e con un nome che non rispecchia chi si è davvero? E cosa possiamo fare noi adulti per comprenderli e supportarli? Le storie di Sandro/Sofia, Paola/Paolo e Stefano/Chanel narrate nel volume Non chiamarmi col mio nome. Leggere tra le righe la disforia di genere di Stefano Vicari e Maria Pontillo con la collaborazione della Società Holden (ed. Erickson) parlano di paura, confusione, conflitto interiore, vergogna, ma anche coraggio e bisogno di comprensione, riconoscimento e accoglienza.
Stefano Vicari è professore di neuropsichiatria infantile alla Facoltà di medicina dell’Università Cattolica di Roma e primario Uoc di neuropsichiatria infantile dell’Irccs Ospedale pediatrico Bambino Gesù. Maria Pontillo, psicoterapeuta cognitivo-comportamentale, è dirigente psicologo Uoc neuropsichiatria infantile presso il medesimo ospedale. Insieme a Laura Pulici del Centro studi Erickson, il 5 maggio hanno affrontato in un webinar il tema della disforia di genere per fare chiarezza e offrire indicazioni a genitori, educatori e insegnanti per un corretto supporto e accompagnamento di ragazzi/e verso un sereno sviluppo della propria identità.
“Ognuno di noi – premette Stefano Vicari – nasce con un sesso biologico – maschile o femminile -; il genere riguarda invece il ‘come’ ci percepiamo. L’identità di genere è un processo che il bambino costruisce già nei primissimi anni, non identificandosi necessariamente nel sesso biologico assegnato alla nascita. Il ruolo di genere è invece ciò che facciamo per rispondere alle sollecitazioni sociali del contesto in cui viviamo. L’orientamento sessuale è un’altra cosa: fa parte delle nostre pulsioni ed emozioni, è l’essere attratti dall’altro sesso o dallo stesso al quale apparteniamo, oppure da entrambi”. La disforia di genere, precisa l’esperto, “è invece il nome del disagio di chi non si riconosce nel proprio sesso biologico e nel genere assegnatogli alla nascita:

Foto da screenshot webinar
vivere questa condizione può rendere vulnerabili e sofferenti, causando difficoltà in famiglia e nei rapporti personali”.
Paolo nasce come Paola ma nella fase adolescenziale inizia a vivere una fase di ritiro sociale per il senso di vergogna legato al sentirsi non una ragazza, ma un ragazzo. “Arriva da noi in psicoterapia – spiega Maria Pontillo – dopo quattro anni di ritiro e alcuni episodi di autolesionismo” perché nell’adolescenza “il contatto con un corpo che cambia, in questo caso l’arrivo del ciclo mestruale e lo sviluppo degli organi sessuali secondari, diventa ancora più doloroso e provoca
sintomi di ansia e depressione e, in alcuni, ideazione suicidaria.
A questo si aggiunge il senso di colpa per avere disatteso le aspettative della famiglia”.
Chanel, nata come Stefano, decide di fare coming out con genitori, amici e compagni di scuola. Fa pace con sé stessa ma incontra difficoltà da parte della famiglia che, pur accettando il cambiamento, manifesta ansia per i giudizi a livello sociale. Di qui la decisione di portare anche i genitori in un percorso di psicoterapia familiare. “Questi percorsi – spiega Vicari – costituiscono grandi cambiamenti che non tutti sono pronti ad accettare, e rappresentano una tempesta emotiva per chi ci si ritrova dentro.
E’ importante che anche i genitori abbiano la possibilità di raccontare le proprie preoccupazioni e di essere accompagnati”.
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Se Chanel ha il coraggio di uscire allo scoperto, non è così per Sofia che, pur sentendosi femmina, è nata maschio con il nome di Sandro. Fin da piccola ama i giochi da bambina e detesta quelli da “maschio”. Tuttavia, per compiacere la famiglia, tenta di reprimere la propria identità arrivando perfino ad avere una fidanzata ma, dopo un grave episodio di autolesionismo per il quale viene ricoverata al Bambino Gesù, inizia un percorso terapeutico. “Sofia ci raccontava la difficoltà di aderire agli standard sociali legati al sesso assegnato alla nascita, vissuta con profonda sofferenza e vergogna sociale”, afferma Pontillo. In questi casi servono “percorsi di psicoterapia, sia individuale, sia rivolti ai genitori, e un lavoro multidisciplinare: neuropsichiatra infantile, valutazione medica, psicoterapia”.
Come creare un contesto inclusivo a scuola? “L’atteggiamento che raccomanderei agli insegnanti (ma anche ai genitori a casa) – risponde Vicari – è di ascolto e presenza di fronte a ragazzi/e che non sempre arrivano ad una chiara consapevolezza su ciò che vogliono, attraversano fasi di grande confusione senza sapere esattamente chi sono. In questo percorso noi adulti non dobbiamo né minimizzare né drammatizzare, ma garantire attenzione, essere sensibili nell’ascolto e non giudicanti.
Devono sentirsi accolti ed essere sicuri che non ci scandalizzeremo di nulla”.
Il gruppo dei pari. Per ogni adolescente “riveste un ruolo un ruolo fondamentale nella costruzione di un’identità solida – spiega Pontillo -, ma può anche diventare soggetto di episodi di bullismo e violenza verso i più ‘deboli’”. Secondo l’esperta, “al di là della disforia di genere,
un’educazione emotiva all’apertura, all’empatia e all’accoglienza dell’altro senza pregiudizi in famiglia e a scuola
può sicuramente proteggere da percorsi di vittimizzazione”.
Quale nome? Un’alunna chiede di essere chiamata con il nome maschile – o il contrario – ma i genitori si oppongono. Come si deve comportare un insegnante? “Quando la scuola diventa specchio del conflitto familiare – afferma Pontillo – per tutelare il benessere psicologico degli adolescenti è strategica la validazione emotiva. L’insegnante dovrebbe dire all’alunna/o:
capisco come ti senti, non so se posso farlo, ma accolgo la tua richiesta e cercherò di fare il possibile anche parlando con i tuoi genitori”.
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No a bruciare le tappe. Molti si chiedono se sia corretto iniziare una terapia ormonale o intervenire chirurgicamente prima della pubertà. “Non si può decidere in generale; bisogna valutare caso per caso – spiega Vicari -. Esistono situazioni in cui il non identificarsi nel proprio sesso biologico provoca grande sofferenza, ma ci sono anche casi in cui
questa incongruenza può essere la spia di un disturbo più generalizzato che ha radici di natura diversa”.
Interventi farmacologici o chirurgici non sono dunque la prima risposta. “Occorre anzitutto aiutare il ragazzo/a a capire meglio i propri sentimenti e le proprie emozioni senza né escludere, né accelerare il percorso di transizione – sostiene Vicari -. Bisogna procedere gradualmente, senza cambiamenti traumatici e/o definitivi, accompagnando e supportando il ragazzo/a per aiutarlo/a a maturare la piena consapevolezza di chi si vuole essere. Esistono a Torino, Milano, Roma, Napoli centri specializzati, altamente qualificati e profondamene credibili del punto di vista clinico e scientifico che possono accompagnare in questo percorso con la delicatezza e la competenza necessarie. I genitori non devono sentirsi soli”. In ogni caso, anche se la disforia di genere può esordire molto precocemente, non può essere considerata un qualcosa di strutturato e il suo epilogo non è sempre scontato. “Nell’età infantile – assicura Pontillo – una percentuale tra il 12 e il 30% dei casi va in remissione con l’ingresso nell’adolescenza. Per questo è importante
concedere ai nostri ragazzi un prudente tempo d’attesa nel percorso evolutivo dall’infanzia all’adolescenza”.