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Coronavirus Covid-19. L’infettivologo Cauda: “Contro le varianti accelerare con i vaccini”

Quasi metà del Paese rischia di finire in arancione. In bilico Lombardia (da oggi quattro Comuni in lockdown), Emilia-Romagna, Lazio, Piemonte, Friuli Venezia Giulia e Marche. Delicata la situazione di Umbria e Abruzzo con quattro province in zona rossa: Perugia e Terni, Pescara e Chieti. Parla Roberto Cauda, infettivologo dell’Università Cattolica: “Occorre accelerare la campagna vaccinale, sequenziare di più, eventualmente procedere a chiusure ‘chirurgiche”’

(Photo SIR/European Commission)

Uno scenario in continua evoluzione. Il 16 febbraio è stata isolata a Napoli la variante B 1.525, mentre nei giorni scorso l’Istituto superiore di sanità e il ministero della Salute hanno rilevato una circolazione sostenuta della variante inglese, temibile perché ad elevata trasmissibilità, sul territorio nazionale. Per Roberto Cauda, ordinario di malattie infettive all’Università Cattolica e direttore dell’Unità di malattie infettive del Policlinico Gemelli di Roma, l’imperativo è: sequenziare di più i campioni virali, accelerare la campagna vaccinale, eventualmente procedere a chiusure “chirurgiche”.

Professore, la preoccupa di più il diffondersi delle varianti o la lentezza della campagna vaccinale?
Il diffondersi delle mutazioni e la lentezza della campagna vaccinale vanno a braccetto. Le mutazioni avvengono perché il virus replica: un processo che implica la possibilità di errori nella trascrizione del genoma virale, le cosiddette mutazioni. La stragrande maggioranza di esse è irrilevante ma una certa percentuale può influire sulle caratteristiche del virus in termini di trasmissione e di aspetti clinici. Per questo è importante accelerare con le vaccinazioni.

Più si vaccina, più si riduce il rischio di replicazione del virus e quindi di sue varianti.

Lo scorso 12 febbraio una “flash survey” condotta da Istituto superiore di sanità e ministero della Salute ha rivelato che a livello nazionale la stima di prevalenza della variante inglese è pari a 17,8%. Stiamo sequenziando abbastanza o bisognerebbe fare di più?
Bisognerebbe fare di più. Le mutazioni se le cerchi le trovi; questo è il problema. Gli inglesi effettuano alcune migliaia di sequenziamenti a settimana. E’ grazie a questo che lo scorso settembre si sono accorti di questa variante che presenta più mutazioni, soprattutto localizzate sulla proteina Spike che gioca un ruolo importante per l’ingresso del virus all’interno delle cellule. L’Italia però si sta mettendo al passo. Il campionamento da lei citato evidenzia una circolazione sostenuta di questa variante pur con differenze tra regione e regione: una forbice che va dallo zero al 59% dei ceppi isolati.

È probabile che la variante inglese diventi prevalente nelle prossime settimane?
Così è accaduto nel Regno Unito. Siccome è più trasmissibile e colpisce in maniera più decisa l’età pediatrica, potrebbe portare ad una nuova impennata dei contagi.

I vaccini attualmente disponibili funzionano contro le varianti? Come vengono testati?
Vi sono diversi studi in corso. Per misurarne l’efficacia, si testa il plasma di soggetti vaccinati, dove sono presenti anticorpi, contro modelli di virus o isolati virali in cui si è verificata la mutazione. La variante inglese è stata isolata per la prima volta lo scorso settembre; quella sudafricana in novembre; quella brasiliana in dicembre. Pertanto, abbiamo maggiore esperienza con la variante inglese contro la quale i vaccini disponibili hanno dimostrato una buona efficacia, pur con qualche differenza: più elevata con Moderna e con Pfizer, un po’ meno con AstraZeneca ma tuttavia sufficiente a bloccarla. Il vaccino di Janssen, società controllata da Johnson & Johnson (per il quale è stata presentata all’Ema la domanda di autorizzazione all’immissione in commercio condizionata, ndr), secondo i dati pubblicati la settimana scorsa dal British Medical Journal mostra un’efficacia dell’86% contro la variante britannica e del 60% contro la variante sudafricana. Per la variante brasiliana ci sono meno dati. Personalmente, concordo con l’Oms:

anche in presenza di varianti si devono utilizzare i vaccini perché comunque mantengono una certa efficacia.

Un vaccino può impedire l’infezione, o non impedirla ma fare sì che ci si ammali in forma moderata o lieve, prevenendo quindi le forme gravi. I nostri vaccini antinfluenzali, che hanno un’efficacia del 60% -70%, funzionano benissimo.

Occorrerà comunque modificarli man mano che cambiano le varianti o ne compaiono di nuove?
Come si dovranno probabilmente adeguare i test diagnostici rapidi, e forse anche i bio-molecolari, bisognerà anche produrre dei vaccini che tengano conto di queste varianti. Non dovrebbe essere difficile. Non ho fonti dirette ma ho sentito dire da organi di informazione a livello europeo che, dando per scontato il pregresso, ci dovrebbe essere una procedura accelerata senza passare per le fasi 1-2-3.

C’è il rischio che il Sars-Cov-2 diventi endemico?
E’ il grande quesito al quale in questo momento non è possibile rispondere. Sappiamo che nell’infezione acuta ci sono degli anticorpi che durano mesi. La risposta anticorpale è la più facile da mettere in evidenza. Si fa un prelievo e si misura la quantità di anticorpi specifici, il cosiddetto titolo anticorpale. A un titolo alto corrisponde un elevato tasso di protezione; un basso titolo è invece indice di protezione molto scarsa o nulla. Però oltre alla difesa legata agli anticorpi neutralizzanti, esiste una difesa legata alle cellule, le cosiddette cellule di memoria che, in caso di un secondo contatto con il virus “riconoscono” le cellule infettate. La domanda è: in presenza di anticorpi non ottimale, quanto questa immunità cellulare gioca come “cellula di memoria” una volta che il virus dovesse rivenire in contatto con chi ha avuto la malattia o con chi è vaccinato? In relazione all’endemia, l’altra questione riguarda la vaccinazione dei più piccoli. Oggi si vaccina dai 18 anni in su ma sono in corso studi dai 12 anni in su. Ritengo che in assenza di controindicazioni bisognerà vaccinare anche le persone in età pediatrica.

Nel frattempo si potrebbe affiancare alla campagna vaccinale l’impiego degli anticorpi monoclonali?
Aifa ha stabilito paletti molto stretti sull’utilizzo degli anticorpi monoclonali: solo in soggetti ad alto rischio, o per età o per comorbilità, e nella fase precoce del contagio. Vanno dunque somministrati precocemente in una sorta di cocktail – uno solo non basta – per prevenire lo sviluppo di forme gravi. Non sono una strategia preventiva utile perché non impediscono l’infezione: la loro somministrazione deve essere effettuata solo in chi l’ha già contratta. Inoltre, a parte i costi elevati, esistono oggettive difficoltà di approvvigionamento. Un’arma potente, da utilizzare in casi molto selezionati – ad oggi l’unica, perché il solo farmaco registrato, il remdesivir, non ha prodotto in alcuni casi i risultati attesi – ma personalmente sarei più favorevole, una volta esperite le doverose verifiche degli enti regolatori, ad impiegare i vaccini prodotti in Russia e in Cina.

Dopo l’Umbria per due terzi in zona rossa, oggi sono entrati in zona rossa anche quattro Comuni della Lombardia. Qualcuno ha proposto un lockdown generalizzato. Che ne pensa?
Lo scenario richiede un inasprimento delle misure, con un particolare focus sulle zone dove le varianti stanno circolando. È chiaro che, aldilà di ogni altra considerazione di natura economica, sociale, psicologica, un lockdown generalizzato funziona. A mio giudizio andrebbe però fatto sul modello israeliano, ossia assicurando contemporaneamente una vaccinazione di massa per evitare una ripresa dei contagi alla riapertura. Prima di arrivare ad un lockdown totale che implicherebbe la chiusura delle scuole e di altre attività che verrebbero molto penalizzate dal punto di vista economico, si potrebbe tentare la via delle “chiusure chirurgiche”, come quelle che lei ha appena citato, e un rafforzamento delle misure già esistenti tenendo d’occhio tre parametri: l’Rt, il ricovero in ospedale, il ricovero in terapia intensiva.

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