Naufragio a Lampedusa: suor Tibaldo (progetto Uisg), “solo silenzio e dolore. Facciamo la nostra piccola parte”

(foto: C. Tibaldo)

“Ieri ho visto la bara di un bimbo piccolo, ma non so se fosse il bimbo di un anno e mezzo o più piccolo. Sicuramente in tanti hanno perso la vita, erano sul molo. E tanti ancora sono purtroppo nel mare. Il mondo è malato, il mondo è malato…”.  A raccontare al Sir il naufragio di ieri e gli ultimi sbarchi di queste ore a Lampedusa è suor Cristina Tibaldo, vicentina, della Casa della Carità. È tra le cinque suore di diverse congregazioni che attualmente vivono a Lampedusa e fanno parte del progetto della Uisg (Unione italiana superiore generali) per accogliere i migranti durante gli sbarchi al molo Favarolo. Ieri non sono riuscite ad entrare al molo perché la polizia scientifica stava lavorando accanto ai cadaveri recuperati in mare dopo il naufragio di due imbarcazioni a 14 miglia da Lampedusa. Al momento, secondo l’Unicef, ci sono 25 morti accertati tra cui una neonata.  Si cercano ancora almeno una decina di dispersi ma le operazioni di soccorso sono complesse. Tra le vittime ci sono anche una neonata e tre adolescenti: i 60 superstiti (tra cui 21 minori), sono stati accolti nell’hotspot di Contrada Imbriacola gestito dalla Croce rossa. Due uomini in gravi condizioni sono stati trasferiti in elisoccorso all’ospedale di Agrigento. Stamattina le suore erano di nuovo al molo per accogliere altri 156 migranti sbarcati dopo il soccorso di 3 imbarcazioni durante la notte. In mattinata sono state avvistate altre due barche con un totale di 50 persone. “Ci si accorge subito quando al molo ci sono cadaveri di un naufragio perché c’è molto più silenzio – racconta suor Cristina . Appena si arriva si avverte qualcosa di diverso. A volte i sopravvissuti raccontano qualcosa molto brevemente. In questi giorni nessuno parlava perché c’era troppo dolore tra la gente”, racconta suor Cristina in una intervista Sir. È a Lampedusa da un mese e mezzo e rimarrà nel progetto altri tre anni: “Viviamo qui aspettando che ci chiamino per gli sbarchi”. Le suore, come i volontari della parrocchia San Gerlando, di Mediterranean hope e delle altre organizzazioni umanitarie presenti nell’isola, ricevono sul telefonino messaggi dalle autorità portuali che informano sugli orari precisi di arrivo, con il numero di persone salvate: “Da parte nostra c’è una grande ammirazione per questa ottima organizzazione. Funziona tutto molto bene, anche all’hotspot. Se ognuno fa la sua parte le cose vanno molto meglio”.  “Ogni sbarco è a sé. Anche oggi sono arrivati molto stanchi – precisa la religiosa -. A volte portiamo il tè. A volte le donne chiedono di andare in bagno. A volte i trasferimenti sono molto veloci. Arrivano, si siedono un po’ sulla panchina e poi ripartono. A volte si fermano un po’ di più perché bisogna aspettare i pulmini della Croce Rossa e abbiamo più tempo per parlare con loro.  Adesso è molto caldo quindi distribuiamo ciabatte infradito e diamo il benvenuto”. La metafora che usa per descrivere la missione intercongregazionale sull’isola è il famoso racconto del colibrì che cerca di spegnere l’incendio della foresta in fiamme portando l’acqua con il suo piccolo becco. Gli altri lo scherniscono dicendo che è ridicolo ed inutile. “Lui risponde: faccio la mia parte. Io mi sento proprio così – spiega suor Tibaldo -. È una cosa piccolissima: diciamo solo ben arrivati, diamo loro qualcosa da bere…Ma se ognuno fa la sua parte tutto funziona meglio”.

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