Don Pino Puglisi. Deliziosi (allievo e biografo): “Un ‘prete di strada’ nel solco di Papa Francesco”

Il giornalista, autore di alcune pubblicazioni sul sacerdote ucciso dalla mafia, lo racconta al Sir anche alla luce della propria esperienza personale, dai tempi del liceo fino al giorno della morte: "Era consapevole anche di rischiare la vita, però non volle andarsene. Rimase a Brancaccio con la sua missione"

Le nozze di Francesco Deliziosi con Maria benedette da don Pino Puglisi (Foto Francesco Deliziosi/SIR)

“A 30 anni dalla sua uccisione penso che sia il momento di superare gli stereotipi e vedere concretamente cosa don Puglisi faceva. Perché si è detto tante volte che, andando incontro ai ragazzini per strada, toglieva manovalanza alla mafia. Ma ci sono anche tanti gesti concreti che vorrei ricordare e che, in qualche modo, sono anche profetici. Uno di questi è diventato anche di grandissima attualità e riguarda il percorso delle processioni, che in passato a volte erano occasioni di omaggio ai boss”. Così Francesco Deliziosi, giornalista, caporedattore del Giornale di Sicilia, ricorda al Sir don Pino Puglisi, a 30 anni dal martirio. Un legame stretto lo unisce al sacerdote ucciso dalla mafia. Ne è stato allievo al liceo e poi lo ha seguito nel periodo di servizio sacerdotale a Brancaccio. Don Puglisi ha anche celebrato il suo matrimonio. Negli ultimi anni, Deliziosi ha scritto la biografia di 3P (“Il prete che fece tremare la mafia con un sorriso”) e ne ha raccolto i testi in un’altra pubblicazione, dal titolo “Se ognuno fa qualcosa si può fare molto”.

Chi era don Pino Puglisi per il quartiere di Brancaccio?
A Brancaccio lui era nato, in un cortiletto nella zona più povera del quartiere. Quindi, non era uno sconosciuto. Nell’ottobre del ’90 accetta la nomina a parroco, lasciando a malincuore il lavoro che aveva fatto negli anni ’80 per il Centro diocesano vocazioni, dove era responsabile a Palermo. Il cardinale Pappalardo l’aveva nominato lì ed era molto contento del suo lavoro. Lo stesso cardinale però lo deve indirizzare al nuovo incarico perché ben sei sacerdoti erano stati contattati dalla Curia dell’epoca e avevano rifiutato di andare a Brancaccio. Puglisi quindi capisce anche il problema del suo vescovo e per obbedienza e per amore del suo quartiere accetta.

L’arcivescovo di Palermo, mons. Corrado Lorefice, con Francesco Deliziosi (Foto Sir)

Cosa ricordi di quel momento?
Un giorno mi disse che era diventato parroco di Brancaccio ‘a modo suo’, con una battuta. In quell’occasione, ci incontrammo nella portineria del Giornale di Sicilia e mi riferì di essere diventato il ‘parroco del papa’. Lì per lì lo guardai interdetto come a volergli chiedere ‘Che vuoi dire?’. E poi lui mi spiegò con un sorriso dei suoi che, controllando i registri parrocchiali, aveva visto che Michele Greco, il boss dell’epoca, era tra i suoi parrocchiani. Michele Greco amava anche definirsi il ‘papa della mafia’. Quindi, lui sapeva benissimo chi era Michele Greco, chi erano i fratelli Graviano. Ma va a Brancaccio consapevole di una missione difficile. E lui nel quartiere è conosciuto e ha già un suo background. Non era certo un don Chisciotte, che non aveva capito a cosa andava incontro.

C’è un evento in cui ciò diventa ancora più chiaro?
A un certo punto Puglisi diventa anche consapevole di rischiare la vita. Non c’è dubbio. Perché subì tante minacce a partire dal maggio ’93. Proprio il giorno dopo che aveva organizzato una manifestazione per ricordare Giovani Falcone, venne bruciato il portone della chiesa di cui era parroco. Da lì a poco tempo ricevette anche lettere con minacce di morte e telefonate anonime. Io e mia moglie, Maria, gli avevamo regalato una segreteria telefonica per il compleanno, che era il 15 settembre. Purtroppo però non gli hanno dato il tempo di utilizzarla. Il regalo era finalizzato proprio a poter filtrare le chiamate ed evitare queste telefonate in piena notte con minacce di morte. Quindi, era consapevole anche di rischiare la vita, però non volle andarsene. Rimase a Brancaccio con la sua missione.

Papa Francesco in prossimità dell’anniversario ha inviato una lettera alla diocesi…
Nella lettera il Papa riprende alcuni temi della sua visita del 2018, che è stata importantissima. Mi piace anche ricordare che comunque c’è la firma di Francesco sul decreto di beatificazione che è avvenuta nel 2013. Fu proprio uno dei suoi primissimi atti. La causa naturalmente era stata istituita sotto il pontificato di Benedetto XVI. Poi il nuovo Papa si è trovato anche a firmare il decreto. Lui di questa figura si è in qualche modo innamorato e ne ha parlato molte volte. In questa lettera, traspare tra le righe la corrispondenza del comportamento di Puglisi con quelle che sono le sue linee pastorali che ha voluto esprimere subito dopo l’elezione. Per esempio, ricordiamo la frase ‘Come vorrei una Chiesa povera e per i poveri’. Ecco, nella lettera ci sono dei riferimenti. E anche in altre prese di posizione il Papa esprime il suo apprezzamento per Puglisi, per questo ‘prete di strada’. Anzi, dice ‘la strada era la sua chiesa da campo’. Ecco, Puglisi non stava chiuso dentro la sua chiesa ma è proprio un rappresentante, se vogliamo, di quella Chiesa in uscita di cui il Papa ci ha parlato tante volte. Stava per le strade, andava a trovare le persone nei vicoli del quartiere Brancaccio. Portava il Vangelo, la parola di Cristo fuori dalla chiesa, direttamente nelle case delle persone.

Foto Sir

Come portò avanti questo impegno pastorale?
Un aspetto poco conosciuto è che Puglisi, per due anni, organizzò le missioni popolari a Brancaccio: due volontari andavano in ogni condominio a visitare le persone. Le letture del Vangelo erano quelle dettate da Puglisi, in cui – nel libro lo ricostruisco – ci sono parecchi richiami alla conversione, al pentimento, ad abbandonare la vecchia vita. Cioè Puglisi aveva scelto dal Vangelo e dagli Atti degli Apostoli proprio dei brani che dovevano servire a scuotere le coscienze delle persone che partecipavano a questi incontri. Ecco quindi, non solo la Chiesa in uscita, non solo la Chiesa povera, ma il Papa vede in Puglisi anche il prototipo del prete che consuma la suole delle scarpe. E, infatti, quando viene ucciso Puglisi ha le scarpe rotte, perché per sé non spendeva neanche un soldo. E non solo. Non aveva neanche il tempo per ripararsele. Lui, lo ricordo benissimo, a casa aveva gli attrezzi del padre, che era calzolaio. Li aveva conservati ed era in grado di risuolare un paio di scarpe. Poteva ripararsele. Ma non aveva avuto neanche il tempo. Aveva consumato le sue scarpe proprio nei vicoli di Brancaccio. Era anche un pastore che conosceva l’odore delle pecore, per usare un’altra espressione del Papa. Era andato nei vicoli, conosceva le situazioni drammatiche di tante persone, famiglie intere con sei o sette bambini che vivevano in un’unica stanza, anche in condizioni promiscue, senza servizi.

Don Puglisi fu precursore di diverse posizioni poi assunte ufficialmente dalla Chiesa. In particolare, quali furono molto rilevanti?
Puglisi proprio nella prima Pasqua da parroco a Brancaccio, nel ’91, cambia il percorso della processione, senza dirlo a nessuno, perché da uomo del quartiere sa benissimo che, passando per la via Brancaccio sotto il balcone della famiglia dei boss del quartiere, vi fosse il rischio che la processione con una sosta inopportuna servisse a rendere omaggio ai boss, a fare il famoso inchino di cui abbiamo visto e letto tanti esempi. Io avevo partecipato a quella processione. E ricordo che lui era in testa al corteo con una semplice croce di legno. In genere, quella processione percorre tutta via Brancaccio e lì tuttora abita la famiglia Graviano. Lui, invece, a un certo punto girò a sinistra e portò la processione nei vicoli del quartiere. La gente un po’ spaesata lo seguì. Poi si capì che davvero qualcosa stava cambiando. Da quel momento la processione fece questo nuovo giro. L’argomento è rimasto un po’ abbandonato, ma negli ultimi anni invece la Chiesa siciliana lo ha messo all’ordine del giorno. E, da alcuni anni a Palermo, ma anche in altre diocesi, i percorsi delle processioni vengono esaminati con attenzione e concordati, in qualche modo sottoposti all’attenzione anche delle forze dell’ordine e della Questura. Di recente abbiamo scritto, e lo diceva il Questore in persona, che in alcuni casi il percorso delle processioni è stato cambiato per evitare rischi di passare sotto certi balconi. Quindi, in qualche modo, quello di Puglisi fu un gesto profetico.

E non fu il solo…
Mentre Puglisi era parroco, un gruppo di fedeli – chiamiamoli così – chiese di formare una confraternita. Conosceva molti di questi presunti fedeli, capì che in realtà dietro c’erano altri interessi. Quindi, fece una serie di riunioni e spiegò benissimo che cosa fosse una confraternita, a cosa servisse e che si trattava di un percorso di crescita spirituale. Tanto che a un certo punto i partecipanti, coloro che avevano fatto la richiesta, capirono la situazione e non si fecero più vedere. Quindi la confraternita non si formò più. Anche qui l’arcivescovo Lorefice ha ripreso in qualche modo questa sollecitazione. Negli ultimi anni, c’è stata anche per le confraternite di Palermo una maggiore attenzione ai componenti, al fatto che ci fossero anche partecipanti con precedenti penali e per mafia. Quindi, le confraternite sono state in qualche modo passate al setaccio per evitare il rischio di infiltrazioni. Naturalmente senza voler criminalizzare tutto il mondo delle confraternite, però alcuni casi sono emersi e la diocesi è intervenuta. Quindi anche questo è un altro gesto profetico di Puglisi. Stiamo vivendo un momento di grande riflessione alla luce dell’eredità di Puglisi, per cercare di depurare la vita delle parrocchie da tutti questi rischi.

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