Senza dimora ucciso a Pomigliano. Don Giannino (parroco): “Partiamo da questa tragedia per creare una città vivibile. Servono sinergie per vincere la sfida educativa”

Domani una marcia per ricordare il senzatetto, ma anche per riflettere, imparare a fare rete, riscoprire la solidarietà e i valori. “Serve un mea culpa collettivo, perché siamo tutti coinvolti, sia da un punto di vista educativo sia di impegno solidale e sociale”, dice il sacerdote al Sir

(Foto: ANSA/SIR)

Una marcia silenziosa in memoria di Frederick Akwasi Adofo, il ghanese di 43 anni, ucciso a Pomigliano d’Arco, in provincia di Napoli e diocesi di Nola, da due giovanissimi che lo hanno pestato nella notte tra domenica e lunedì fino a lasciarlo agonizzante a terra. Partirà, giovedì 22 giugno, dal parcheggio del supermercato Piccolo, in via Gramsci, e arriverà presso la parrocchia di San Francesco di Assisi. La parrocchia invita tutti ad accendere un lumino sul proprio balcone. Frederick era sopravvissuto al viaggio verso l’Italia dal Ghana, passando nel deserto del Sahara, imprigionato in un lager libico, per poi salire su un barcone e attraversare il Mediterraneo. Era in Italia da oltre dieci anni. Nel 2012, era stato ospitato insieme a un’altra cinquantina di migranti in un albergo della città in attesa dell’asilo politico. Aveva anche conseguito a Pomigliano il diploma di scuola media. Il parroco di San Francesco d’Assisi, don Pasquale Giannino, lo ricorda al Sir e lancia un appello a creare sinergie per vincere la sfida educativa e sociale.

(Foto: ANSA/SIR)

Chi era Frederick?

Frederick “risiedeva” in una delle arterie del territorio parrocchiale, cioè in via Principe di Piemonte, dormiva in un sacco a pelo, fornito da persone della zona. Era nota la sua presenza qui sul territorio: tutti lo conoscevano e tutti abbiamo apprezzato che era affabile, garbato non era mai maleducato, non mancava mai di rispetto. Erano molti quelli che gli lasciavano un euro o anche un panino con il prosciutto come piaceva a lui e ne ricevevano in cambio la sua carica di umanità, il suo saluto, il suo sorriso. Stava all’uscita di un supermercato, in via Gramsci, e anche se non era considerato salutava tutti. Chiamava i dipendenti del supermercato e suoi frequentatori “my friend” e i suoi rapporti amicali partivano proprio dal rispetto per le persone che Frederick aveva. Purtroppo, nel tempo – giunto in Italia nel 2012 – l’uomo ha iniziato a bere, a volte non riusciva neppure a tornare la sera al luogo dove di solito dormiva. Più di una volta – mi sono trovato in zona e ho visto di persona – è stato chiamato il 118 o i Carabinieri, ma non c’è stato un percorso rieducativo per lui, per aiutarlo a uscire da questa dipendenza. La burocrazia ha frenato anche tante istituzioni nell’agire. Alla fine, ci si è abituati alla sua presenza, come avviene per gli altri poveri, che restano ai margini delle nostre strade, mentre noi continuiamo a vivere la nostra vita.

(Foto: pagina Facebook Frederickakwasi Adofo)

La morte di Frederick era evitabile?

Serve un mea culpa collettivo,

è inutile individuare la colpa di questo o di quello, della Chiesa o di altre istituzioni, perché siamo tutti coinvolti, sia da un punto di vista educativo sia di impegno solidale e sociale, penso ai servizi sociali, alle istituzioni, alle forze dell’ordine, alla Chiesa, a noi cristiani, a noi preti. Sono problemi che ci sono da sempre: oggi si chiama Frederick, domani avrà altri nomi, ma ci sono persone invisibili che vivono sul nostro territorio ed è venuto il momento nel quale tutti insieme cominciamo ad avere un’attenzione verso queste situazioni di povertà e di emergenza. Come non dobbiamo dimenticare il problema delle unità abitative: ci sono persone che dormono per strada o che vanno nei dormitori. A Frederick è stata fatta la proposta di andare nel dormitorio e anche io gli ho proposto di venire a dormire nella canonica della parrocchia, nel periodo della pandemia o in inverno, ma lui ha rifiutato perché veniva da una storia di prigionia e violenza e non voleva sentirsi vincolato dagli orari del dormitorio. O in pandemia non si poteva uscire per evitare di portare in dormitorio il contagio.

Come state vivendo a Pomigliano questa tragedia?

Adesso sui social c’è un grande coinvolgimento emotivo, ma non fa onore a Frederick né a quanti gli hanno donato un euro, un pigiama, una maglia, lo hanno invitato a casa a fare una doccia, perché Pomigliano è ricca di persone solidali che quando vedono in difficoltà una persona perbene danno una mano. Ad esempio, Luigi, il proprietario del supermercato, ora chiuso, in via Principe di Piemonte gli faceva fare la doccia e gli donava alimenti. Purtroppo, il dramma dell’alcol ha reso Frederick ingestibile, forse inizialmente ha cominciato a bere per proteggersi dal freddo. Oggi la sua morte deve riaccendere anche i riflettori sul problema educativo: scagliarsi contro minori, che potrebbero aver compiuto il delitto, o contro le loro famiglie non serve a nulla. La morte del povero Frederick evidenzia, purtroppo, una delle piaghe della nostra società: la perdita del rispetto dell’altro, soprattutto se indifeso, di altra cultura e diverso da noi.

Sono sotto gli occhi di tutti le forme di rabbia repressa che si riscontrano tra i giovani ma anche negli adulti

e che possono manifestarsi con episodi come quello che è costato la vita a Frederick. Il dramma accaduto non può essere risolto solo con un giusto intervento penale, punendo con il carcere quanti hanno compiuto tale gesto, ma ha bisogno soprattutto di un intervento educativo che richiede l’impegno di tutte le agenzie che hanno responsabilità sociali: Chiesa, scuola, famiglie, amministrazioni, adulti. Ci lamentiamo tanto dei giovani, ma chiediamoci che cosa la comunità adulta sta lasciando in eredità a questi giovani. Di fronte, allora, a tragedie come quelle di Frederick dobbiamo capire che c’è bisogno di fare rete sia dal punto di vista educativo sia dal punto di vista di promozione umana. Mettiamo insieme le energie, investiamo su questo. Penso alle politiche sociali messe in atto dal Comune: si potrebbe fare un vero intervento di riqualificazione, aiutando a riportare a una vita dignitosa chi, per vari motivi, è in difficoltà, per esempio per situazioni psicologiche particolari o perché, come Frederick, è fuggito dai propri Paesi sperando di costruire un futuro migliore.

Certamente sognava un destino diverso…

Dopo che era giunto in Italia su un barcone, Frederick aveva conseguito anche un titolo di studio ed era inserito in un percorso, ma ha fatto fatica ad adattarsi ed è finito per diventare un mendicante. Quando personalmente l’ho conosciuto, nel periodo della pandemia, non l’ho mai visto lucido. Sarebbe servito un cammino di accompagnamento per rieducarlo.

Il problema nostro non è della carità estemporanea, ma di una carità fatta con intelligenza,

anche perché servono le sinergie tra tutte le agenzie, per arginare sia i problemi di chi vive in difficoltà sia quelli sociali, visto che sono in aumento reati compiuti da giovani, che finiscono nella micro o nella macro delinquenza. Certo, ci sono tanti giovani buoni, che hanno valori positivi, ma non possiamo dimenticare i tanti che lasciano la scuola, hanno storie familiari difficili e finiscono in giri pericolosi.

(Foto: pagina Facebook parrocchia San Francesco di Pomigliano d’Arco)

Domani ci sarà una marcia in memoria di Frederick…

La marcia vuole aiutarci a riflettere su quanto è accaduto, senza “sparare sentenze”. Mi è piaciuto molto un messaggio che mi è arrivato, via WhatsApp, da uno dei miei parrocchiani: non solo faceva un mea culpa, ma è andato a meditare e pregare sul luogo dove è successo il pestaggio mortale. Questo mio parrocchiano si è chiesto cosa ha fatto e cosa avrebbe potuto fare di più per Frederick e perché non si verificasse la tragedia, ma anche cosa possiamo fare ora perché non avvenga più in futuro. Si tratta di un papà di due figli e si è sentito responsabile dal punto di vista sociale di quanto accaduto. L’idea di questa marcia, voluta da tutte le parrocchie di Pomigliano, nasce per dare un segno di vicinanza non solo a Frederick, che ora vive con Dio, ma a tutta la comunità con l’invito:

“Non disorientiamoci”.

Non serve alzare un polverone e quando si spegneranno i riflettori tutto torna come prima, piuttosto partiamo da questa tragedia per creare una città vivibile, valorizziamo i rapporti umani, riscopriamo il senso della solidarietà e i valori e cominciamo a lavorare sui casi di emergenza, tra i quali, ribadisco, c’è la questione educativa dei giovani, spesso lasciati a se stessi dalle famiglie, come pure i problemi delle case. Penso a quei papà separati o divorziati che restano senza soldi, dopo aver versato l’assegno mensile alla famiglia, e sono costretti a dormire in auto. Quindi, è il momento anche di farsi carico di difficoltà “invisibili”, ma che hanno bisogno di attenzione e prossimità.

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