“Ci sentivamo abbandonati, eravamo come bambini che avevano visto troppo e troppo presto, bisognosi di un abbraccio”. Inizia così Théa Ajami, giovane cattolica di rito latino di Beirut, parte del Consiglio dei giovani del Mediterraneo, il racconto del conflitto in Libano durante la catechesi “Coscienza e dialogo”, del ciclo delle “12 parole per dire Speranza”. Anche in mezzo all’incertezza, però, “è successa una cosa meravigliosa” racconta. “Chiese, case e scuole hanno aperto le loro porte e sono diventate centri di accoglienza per i profughi del sud del Paese, senza fare differenze di religione”. È questo uno dei segni tangibili di speranza che Théa ha visto nel Libano in guerra. “I bambini avevano la paura negli occhi e il silenzio sulle labbra, ma, seguendo le attività che proponevamo loro, lentamente si sono aperti. Non stavamo soltanto accogliendo, ma guarendo” dice. Anche lei riconosce il peso che i suoi connazionali portano, ma non si ferma lì. “A volte mi sento stanca davanti a questo dolore, ma la sera, nel silenzio, l’unico rifugio che ho è la preghiera. È lì che la disperazione si fa speranza. Lì riconosciamo che nessuno è abbandonato, nessuno è orfano” afferma. E tra i giovani è il dialogo a fare intravedere un orizzonte di pace possibile. “Le nuove generazioni hanno l’opportunità di offrire nuovi punti di vista e una nuova narrazione della storia. Così si stanno ricomponendo fratture che prima sembravano insanabili”, aggiunge Jeanne-d’Arc Davoul-beyukian, giovane di Beirut, rappresentante della Chiesa armena cattolica nel Consiglio dei giovani del Mediterraneo.