“Gesù Bambino, ti scrivo da una terra che conosce la polvere e la luce, dalla Calabria dove il mare sembra pregare senza parole e le colline portano addosso il peso di troppe promesse mancate. Ti scrivo, Bambino, non per abitudine devota né per un esercizio di stile, ma perché mi brucia dentro una domanda semplice e tremenda: come si fa a restare umani, quando tutto accelera e ci scortica? Tu arrivi come una radicale smentita”. Inizia così la lettera di mons. Francesco Savino, vescovo di Cassano all’Jonio, a Gesù Bambino che arriva “non come una teoria, non come un’idea che consola, ma come una presenza che rende inservibili i nostri alibi: la follia di Dio che si è fatto uomo”. “Non un simbolo levigato, non un altare lontano, ma carne che trema, respiro corto, bisogno di braccia. E già questo è un giudizio sul nostro mondo: noi che veneriamo la prestazione e scartiamo la fragilità, tu – scrive il presule – ti consegni alla debolezza come trono. Tu la esalti, la consacri, la rendi habitat di senso”. Oggi il tempo “non scorre: divora. Ci rincorre con un frastuono che chiamiamo ‘normalità’, ci trascina come foglie in piena, ci rende estranei persino a chi ci siede accanto. Le giornate si sfilacciano, le case si riducono a dormitori freddi, quasi inabitabili, le piazze si svuotano di sguardi e si riempiono di vetrine. Io te lo confesso: vorrei fermare il tempo”, sottolinea: “Vorrei sottrarlo all’idolo dell’urgenza, spezzare la tirannia dell’immediatezza, ridare respiro alle ore”. Il presule chiede “il miracolo più difficile, quello che non cerca fanfare. Fa’ rinascere il noi. Non un ‘noi’ da slogan, non un ‘noi’ di facciata, ma una comunione che costa, che implica rinunce, che educa. Una trama condivisa capace di togliere l’io dal centro, quell’io disfunzionale e sregolato che diventa misura di tutto e che poi si scopre desolato, esausto, senza un centro non violato dove riposare. Un’appartenenza che non sia branco, ma comunione; non recinto, ma tavola; non identità armata, ma ospitalità. Una fraternità capace di chinarsi con mitezza e rialzare con rispetto”. Per mons. Savino “siamo pieni di connessioni e poveri di vicinanza”: “Abbiamo parole ovunque e ascolto quasi da nessuna parte”. Il presule ricorda poi le sessanta guerre in corso, i bambini senza sonno, le madri senza tregua, i padri senza ritorno. Da qui la richiesta di “una pace che non sia anestesia. Una pace impastata di giustizia”, la conversione delle mani che contano “i proiettili in mani che contano i giorni della tregua” perché nessuna guerra è “normale”, nessun massacro è “necessario”, nessuna vita è “collaterale”. E poi la richiesta di una Chiesa che “resti nuda: non più truccata, non più corazzata. Spogliata di privilegi, leggera di facciate, liberata dall’ansia di contare più che amare, dal morbo sottile delle velleità carrieristiche che irrigidisce il cuore e addomestica il Vangelo”. Una Chiesa che “non abbia nostalgia del potere, ma fame di Parola”.