Referendum da risanare

Alla luce dell'esigua partecipazione, si segnala l'esigenza di "urgenti cure" per questo istituto di "democrazia diretta"

(Foto ANSA/SIR)

Esito annunciato per i referendum dell’8-9 giugno: il superamento del quorum, date le circostanze e il trend pluridecennale, era tanto impossibile quanto previsto il flop. Con un 30,58% di affluenza c’è ben poco da stare allegri, sia per gli illusi e audaci proponenti, sia per la nazione, che vede un’ulteriore disaffezione ad una chiamata alle urne ritenuta dai più, evidentemente, superflua o comunque svalutata.
Ma il colmo è, come accennavamo nel precedente commento, che proprio i promotori del “sì” – cioè della cancellazione di alcune norme sul lavoro e del dimezzamento degli anni necessari per richiedere la cittadinanza italiana da parte di extracomunitari – erano sostanzialmente certi che non avrebbero raggiunto il 50% + uno degli aventi diritto e si auguravano di toccare almeno il 40%, ridotto poi in corso d’opera, più realisticamente, al 30%, calcolando che il numero di elettori avrebbe potuto fare concorrenza con quanti avevano votato alle politiche per l’attuale coalizione: a confessare ed evidenziare esplicitamente lo strabismo di una visione che puntava non tanto alla risposta ai quesiti, e quindi ad un risultato positivo in sé dei referendum, ma ad una sorta di rivalsa di altro genere, appunto smaccatamente “politica” o addirittura partitica, che nulla avrebbe a vedere con la natura di un referendum abrogativo.

Ce n’è abbastanza per dichiarare pericolosamente malato e bisognoso di urgenti cure questo istituto di “democrazia diretta”, pur significativo in sé, ma evidentemente pressoché inservibile.

Se il centrodestra ha avuto gioco fin troppo facile nel cavalcare l’astensionismo, è chiaro che il centrosinistra (non si capisce bene se “campo stretto” o “campo largo”) ha fallito in quella che preannunciava come una “spallata” alla maggioranza, fino a provocare la battuta ironica di Giorgia Meloni che commenta: “Vogliono inchiodarmi al governo per 10 anni”. Tanto più che si è appiattito, in gran parte, al seguito di un sindacato, la CGIL, che, rompendo inopinatamente quello che restava dell’unità sindacale, intendeva condizionare tutti. Partendo dal segretario generale Maurizio Landini, che, tra un sorriso e l’altro, ha dovuto ammettere la sconfitta, ma glissando con la considerazione, che sembrerebbe ovvia se non patetica, secondo cui “è in crisi la democrazia”. Per non parlare di Elly Schlein che, ingenuamente, aveva parlato di referendum (i 4 quesiti sul lavoro) come “autocritica” per “correggere gli errori passati del centrosinistra”, cioè in particolare del Pd dell’allora Renzi, autore del Jobs act, dandosi la zappa sui piedi che le complicherà la vita nell’eterno conflitto tra massimalisti e riformisti all’interno del suo stesso partito.
Passando all’altro leader, Giuseppe Conte, va riconosciuta la sua maggiore prudenza, ad esempio, lasciando libero il M5S nel quesito sulla cittadinanza, dove, in effetti, si è registrata una ben più ampia presenza di “no” contro il diktat del “sì”, anche se personalmente si era espresso per quest’ultima scelta. Il quinto quesito, proposto anche da molte associazioni, infatti, è l’unico in cui c’è stata un po’ di partita tra favorevoli e contrari (65,49% “sì” contro 34,51 “no”; mentre negli altri quatto si è registrata una media di 88 “sì” e 12 “no” ogni 100 votanti): il che, per altro, pone ulteriori problemi al centrosinistra, ma anche alla stessa società civile (Caritas italiana compresa, che aveva comprensibilmente e opportunamente invitato al “sì”), aggravati dal fatto che ad esprimersi sono stati appunto, in gran parte, i votanti di una certa area, lasciando intuire quale sarebbe la proporzione percentuale considerando l’intero elettorato.
Onore al merito, comunque, a quanti hanno espresso esemplarmente il proprio voto; mentre, per altro, si devono constatare le circostanza che hanno dissuaso molti dallo scomodarsi (la misura di questo “dilemma”, o comunque di perplessità diffusa, l’ha data lo stesso ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, che, ad urne chiuse, ha rivelato di non essere andato ai seggi…). Con tutto ciò, sarà opportuno occuparsi della malattia dell’istituto referendario: le varie proposte (aumento delle firme necessarie per proporlo, diminuzione del quorum, ecc.) potrebbero essere solo palliativi. L’unica strada ragionevole, come già dicevamo, è che il Parlamento svolga seriamente il suo lavoro in tutti gli ambiti possibili, ricorrendo ad eventuali referendum solo per questioni effettivamente rilevanti e con quesiti chiari e dirimenti, su cui il popolo mantiene il diritto-dovere di capire e di esprimersi.

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