Tragedia di Assago. Pollo: “Aiutare le persone a uscire dal tunnel dell’isolamento, del risentimento e delle ‘malattie dell’anima’”

“Occorre progettare una società che metta al centro il bisogno delle persone più deboli e fragili, sapendo che la qualità di vita di un gruppo sociale dipende dalla qualità di vita degli ultimi, dei più deboli, fragili ed emarginati, perché la qualità della vita di un intero sistema è dato da chi sta più in basso. Prendersi cura degli ultimi è un atto di benevolenza non solo verso chi è in difficoltà, ma anche verso se stessi”, spiega l’antropologo dell’educazione

(Foto: ANSA/SIR)

Una vita solitaria senza amici, la paura di essere malato e l’invidia verso gli altri che gli sembravano felici: sarebbero questi gli elementi che avrebbero scatenato la tragedia avvenuta ieri sera, giovedì 27 ottobre, al Centro commerciale Milanofiori di Assago, alle porte di Milano. Per protagonista Andrea Tombolini, 46 anni, che ha accoltellato 6 persone al Carrefour. Un morto e cinque feriti il risultato del raid. “Non era mai stato aggressivo né violento”, ha ripetuto per ore il padre ai carabinieri. Incensurato, conduceva una vita riservata e solitaria alla periferia di Milano, con i genitori e la sorella. Prima dell’aggressione nel centro commerciale, però, era stato ricoverato in Pronto Soccorso il 18 ottobre, per atti autolesionisti: si era colpito la testa e il volto con i pugni. Se ne era andato dall’ospedale con una segnalazione ai servizi psichiatrici per approfondimenti, ma non erano seguiti ricoveri urgenti o trattamenti sanitari obbligatori. Sembra che fosse in cura per la depressione. Nel suo fascicolo sanitario, acquisito dai carabinieri, risulta un altro episodio simile, una “crisi”, dopo un intervento di routine alla schiena che lo aveva spaventato a tal punto da fargli credere di essere in pericolo di vita. Ora Tombolini è ricoverato piantonato in una stanza del reparto di psichiatria del San Paolo. “Pensavo di star male, di essere ammalato. Ho visto tutte quelle persone felici, che stavano bene, e ho provato invidia”, ha sostenuto l’uomo durante gli interrogatori. Di quanto accaduto parliamo con Mario Pollo, antropologo dell’educazione, già docente di sociologia e pedagogia all’Università Lumsa di Roma.

(Foto archivio)

Cosa possiamo dire del gesto insano ad Assago?

Innanzitutto, bisogna sgombrare il campo da un’equazione che spesso viene fatta tra malattia mentale, psichica, e violenza, altrimenti torniamo all’idea alla base dei manicomi che etichettava le persone malate di mente come pericolose per sé e per gli altri. Dai tempi di Basaglia in poi è stato dimostrato come la percentuale di persone con problemi di salute mentale che commettevano gesti pericolosi contro sé e gli altri non era diversa dal resto della popolazione cosiddetta normale. La stigmatizzazione delle persone con problemi mentali “giustificava” la loro reclusione all’interno delle strutture manicomiali e la tentazione di questo pregiudizio affiora sempre. Detto questo, certamente la chiusura dei manicomi non è stata seguita dallo sviluppo su tutto il territorio dei servizi necessari alla cura di persone con disagio mentale, è un aspetto incompiuto della legge Basaglia. Sentendo questo caso mi veniva in mente una frase che gli alcolisti anonimi hanno pubblicato sul loro sito negli Stati Uniti: “Il risentimento è quello che più di ogni altro distrugge gli alcolizzati, l’origine di ogni malessere spirituale, perché la nostra non è stata solo una malattia fisica e mentale, ma un’affezione dello spirito”. Al di là delle malattie mentali e psichiche, ci sono delle malattie dello spirito: Fëdor Dostoevskij, nel suo romanzo “Memorie dal sottosuolo”, identifica nel risentimento il responsabile dell’uccisione dell’amore nella persona spingendola a gesti molto gravi di malevolenza nei confronti degli altri e di se stessa. Per evitare che le persone che vivono una sofferenza cadano preda del risentimento è necessario che vivano in un contesto che le sostenga e non che le isoli, magari fornendo solo psicofarmaci. Mancano luoghi a livello sociale e comunitario, che aiutino queste persone a ritrovare se stesse, perché ciò che genera il risentimento può anche guarire tali persone, in quanto ciò che spinge verso la distruttività degli altri e di se stessi, se correttamente elaborato, può aiutare le persone a trasformarsi evolutivamente in meglio.

(Foto: ANSA/SIR)

Quali luoghi dovrebbero essere deputati a guarire le “malattie dell’anima”, che, come il risentimento, avvelenano la vita?

Penso a centri dove le persone in disagio psicologico possono trovare un sostegno nel cammino di recupero di se stessi e di uscita dal tunnel in cui sono finiti. Di solito, invece, persone con problemi, come nel caso di Tombolini, finiscono per isolarsi. Luoghi come quelli che aiutano le persone con dipendenze o come i gruppi degli alcolisti anonimi. Centri che non richiedono un ricovero per le persone che così restano inserite nel loro ambito di vita, iniziando, al tempo stesso un percorso, ma senza stigmatizzazioni. Ci sono comunità per chi ha disturbi psichiatrici, ma di solito residenziali, e comunque non sono tanto frequenti. Potrebbero essere pensati anche dei centri di accoglienza nelle parrocchie. Infatti, non possiamo immaginare di poter raggiungere in breve tempo l’obiettivo che i nostri luoghi di vita diventino comunità accoglienti e solidali. Insomma, servirebbe luoghi di cura dell’anima per evitare che le persone con un disagio mentale piombino in un isolamento che, come nell’uomo del sottosuolo, descritto da Dostoevskij, diventa generatore di risentimento. Il fatto stesso che Tombolini abbia detto che il fattore scatenante per lui sia stato vedere persone felici indica una delle manifestazioni tipiche del risentimento. Oltre a ciò, dovrebbero esserci servizi psichiatrici più sviluppati, per offrire tempestivamente terapie e sostegno psicologico.

(Foto: ANSA/SIR)

La nostra società, ricca di disuguaglianze, facilita il risentimento?

Anche di fronte alle disuguaglianze ci sono modi diversi di reagire: da un lato, ci può essere l’impegno a porre fine a quella disuguaglianza che fa soffrire se stessi e gli altri e, dall’altro, l’invidia sociale che può far sviluppare il risentimento, che è distruttivo e non aiuta l’emancipazione. Oggi le disuguaglianze stanno crescendo, ma è difficile vedere dei processi che aiutino le persone a diventare protagoniste della lotta contro le ingiustizie di cui sono vittime. È una questione di mancanza di partecipazione.

(Foto: ANSA/SIR)

Di fronte alle “malattie dell’anima”, come si possono aiutare le famiglie a cogliere i primi sintomi?

L’isolamento, la decisione di recidere i legami con la vita sociale, è già un sintomo. Cosa può aiutare? Ricordo che a Roma un gruppo di giovani si ritrovava per qualche ora di svago, come il cinema, una pizza o una gita, e del gruppo facevano parte anche coetanei, segnalati dai servizi psichiatrici. Gli psichiatri assistevano i ragazzi problematici e anche, da dietro le quinte, le attività del gruppo. Ecco, quando un genitore si accorge che un figlio ha un problema dovrebbe avere la possibilità di rivolgersi a dei servizi o a degli enti di volontariato. Spesso la famiglia non sa cosa fare, se non portare il proprio congiunto dallo psichiatra, ma sono importanti anche sostegni ulteriori per evitare l’isolamento che può generare distruttività. Serve un nuovo tipo di progettualità sociale e politica. Occorre progettare una società che metta al centro il bisogno delle persone più deboli e fragili, sapendo che la qualità di vita di un gruppo sociale dipende dalla qualità di vita degli ultimi, dei più deboli, fragili ed emarginati, perché la qualità della vita di un intero sistema è dato da chi sta più in basso.

Prendersi cura degli ultimi è un atto di benevolenza non solo verso chi è in difficoltà, ma anche verso se stessi.

(Foto: ANSA/SIR)

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