
“Il Papa propone di trasformare la pace da ideale astratto a pratica concreta”. Giovanni Scarafile, docente di Filosofia morale all’Università di Pisa, parte da questa intuizione di Leone XIV per commentare il discorso pronunciato il 17 giugno ai vescovi italiani. Un intervento che parla di pace come “forma ecclesiale”, non solo come esigenza politica o aspirazione spirituale. La pace – spiega Scarafile – diventa un ethos che emerge dalla vita liturgica, catechetica e caritativa, fondato sull’ecclesiologia della comunione.

(Foto giovanniscarafile.me)
Educare alla nonviolenza, in una cultura segnata da conflitti e polarizzazioni, può sembrare una proposta utopica?
I tempi che viviamo rendono urgente recuperare l’educazione alla nonviolenza. Troppe figure, cattoliche e laiche, che l’hanno testimoniata rischiano oggi l’oblio: da don Lorenzo Milani a Danilo Dolci, da Aldo Capitini a padre Ernesto Balduzzi, il quale mostrò con rigore evangelico e sociale che la nonviolenza non è fuga dalla realtà, ma modo radicale di abitarla. A livello ecclesiale, questo significa creare spazi di riconciliazione nelle parrocchie e nei territori feriti; a livello scolastico, formare docenti capaci di abitare il conflitto senza semplificazioni; a livello comunitario, promuovere laboratori intergenerazionali e interculturali, dove il dialogo sia stile concreto di vita.
In che senso la nonviolenza è un’arte concreta del vivere insieme?
L’urgenza è mostrare che la nonviolenza non è un’astrazione, ma un’arte concreta del vivere insieme, un atto di responsabilizzazione che coinvolge ciascuno secondo le proprie possibilità, non solo intellettuali o specialisti, ma ogni credente chiamato a scegliere quotidianamente parole e gesti capaci di disinnescare l’opposizione e custodire l’incontro.
Professore associato di Filosofia morale presso l’Università di Pisa e Liu Boming Professor all’Università di Nanchino (NJU). Dirige la collana editoriale “Controversies. Ethics and Interdisciplinarity” per John Benjamins Publishing Company di Amsterdam e la collana “Etiche applicate e antropologie filosofiche” per l’editrice Milella. È vicepresidente dell’IASC (International Association for the Study of Controversies). Tra le sue opere più recenti: “La spina nella carne. Cinque lezioni sul dialogo” (YOD Institute, 2025).
Il Papa legge un versetto paolino – “Per quanto dipende da voi, vivete in pace con tutti” – come responsabilità concreta. Che tipo di antropologia ne emerge?
Questo versetto, letto da Leone XIV come invito a una responsabilità concreta, dialoga profondamente con la nozione di inaudalgia su cui ho recentemente riflettuto: quel dolore esistenziale che nasce dal non essere ascoltati, da una sistematica assenza di riconoscimento nelle relazioni.
La pace richiede necessariamente capacità di ascolto, poiché l’invisibilità dell’altro genera conflitto tanto quanto l’azione esplicita.
Quali sono le radici più profonde di questa fragilità relazionale?
L’inaudalgia evidenzia che la violenza può scaturire da omissioni apparentemente innocue: non ascoltare, non riconoscere, restare indifferenti. Diviene così urgente recuperare un’antropologia relazionale e intersoggettiva, distante tanto dal modello individualista quanto da quello funzionalista, nella quale la persona esiste autenticamente solo in relazione reciproca con l’altro. L’appello del Papa alla pace è una chiamata etica precisa: riconoscere le ferite dell’inaudalgia e rispondervi con pratiche quotidiane di ascolto autentico e attenzione relazionale.
Come trasformare la paura dell’altro in occasione di incontro reale?
Parlare di trasformare la paura dell’altro in opportunità, come propone Leone XIV, non è questione di spontaneità emotiva né di improvvisazione etica.
Richiede una mediazione autentica, che non può essere lasciata al caso o a meccanismi impersonali, perché implica esporsi personalmente, affrontando la fatica e il rischio dell’incontro.
Ogni mediazione significativa passa attraverso la coscienza personale, non intesa come rifugio privato ma come capacità di discernere e decidere liberamente.
Il 17 giugno, nell’udienza alla Conferenza episcopale italiana, Papa Leone XIV ha rilanciato l’impegno della Chiesa per la pace, chiedendo che ogni diocesi diventi “una casa della pace”. “La pace non è un’utopia spirituale – ha affermato – ma una via umile, fatta di gesti quotidiani, che intreccia pazienza e coraggio, ascolto e azione”. Il Pontefice ha invitato a promuovere percorsi di educazione alla nonviolenza, mediazione nei conflitti locali e progetti di accoglienza capaci di trasformare “la paura dell’altro in opportunità di incontro”.
Quali rischi intravede nel nostro modo di intendere la leadership?
Spesso si è attratti da figure carismatiche o forti, ma è necessario vigilare contro derive egoriferite, che trasformano la leadership in dominio. Serve un’educazione alla coscienza che liberi le relazioni dal conformismo e le renda autentici spazi di cura e verità.
Il Papa ha parlato della pace come “via umile” fatta di “gesti quotidiani”. Che implicazioni ha questo sul piano della comunicazione?
Assumere la pace come “via umile” richiede oggi una competenza comunicativa avanzata. Se ci si accontenta ancora di un’etica dei media, ripetitiva e prevedibile – come chi consulta una mappa scolorita, su cui le strade esistono ma non indicano più dove andare – oggi è necessario puntare decisamente sulla dialogetica, un approccio etico alla comunicazione intriso di visione antropologica.
Cosa intende per “dialogetica”?
L’etica tradizionale dei media è inadeguata alle sfide contemporanee: i suoi codici, pensati per la stampa del Novecento, sono impotenti di fronte ad algoritmi e viralità artificiale.
La dialogetica, invece, integra fenomenologia e pragmatica della comunicazione. Dove l’etica tradizionale chiede “è vero?”, la dialogetica domanda “come questa verità trasforma chi la riceve e le reti in cui circola?”.
La differenza è abissale: da una parte regole astratte, dall’altra la comunicazione come evento relazionale vivo, che coinvolge corpo, parola, responsabilità, capacità di generare senso.
Come tradurre questa visione nel concreto della vita ecclesiale?
Sarebbe auspicabile che in ogni diocesi si aprissero spazi formativi stabili dedicati alla dialogetica, intesa come esercizio serio e continuativo della parola responsabile, del confronto rispettoso e della costruzione condivisa del senso. Anche piccoli laboratori, se ben radicati, possono generare un cambiamento duraturo nella qualità del discorso ecclesiale e civile.