Giulia di Barolo: vita e opere di un’amica e ispiratrice di Don Bosco

Viaggiando sulle orme di don Bosco, abbiamo scoperto la figura della Marchesa di Barolo, a fianco degli "ultimi" di Torino insieme al marito. I due coniugi sono stati dichiarati Venerabili

(Foto archivio)

(da Torino) Una femminista “ante litteram”, nel senso migliore e non ideologico del termine. Si potrebbe definire così Juliette Colbert de Maulévrier, amica e ispiratrice di don Bosco, apripista di un “sistema preventivo” al femminile che ha anticipato quello poi messo in campo dal giovane prete torinese per i ragazzi, diremmo oggi, “border line” della città. Dietro un grande santo c’è una grande donna, si può affermare modificando appena un pò il celebre proverbio. Il ruolo giocato dalla Marchesa di Barolo nella vita di Don Bosco lo abbiamo appreso – non senza sorpresa – dai Salesiani che ci hanno ospitato e guidato, a Torino, nel viaggio sulle orme di don Bosco compiuto da trenta giornalisti accreditati presso la Sala Stampa della Santa Sede e la stampa estera, per iniziativa di don Giuseppe Costa, segretario del rettor maggiore e co-portavoce della Congregazione. La storia è di quelle da romanzo, e potrebbe benissimo divenire oggetto di un racconto cinematografico: gli ingredienti ci sono tutti, a partire dall’ambientazione, il sontuoso palazzo nobiliare di Via delle Orfane, di proprietà del Marchese di Barolo, Carlo Tancredi Falletti, sposato da Giulia grazie ad un matrimonio combinato dalle famiglie ma che poi si è rivelato un vero e proprio matrimonio d’amore, merce rara per quei tempi. Di giorno, i fastosi saloni ospitavano la crema dell’alta società torinese – da Cavour a Silvio Pellico, tanto per fare due nomi – e di notte prestavano rifugio alle donne uscite dalle carceri o che non sapevano dove andare. Le “scartate”, direbbe oggi Papa Francesco.

Tutto comincia con una passeggiata, nella domenica in Albis del 1814.

Mentre incrocia per strada un prete che portava il viatico ad un malato, Giulia sente tra bestemmie e imprecazioni la voce di uno dei reclusi delle vicine carceri senatorie. “Non il Viatico vorrei, ma la zuppa!”, il grido udito da dietro le sbarre. Da quel giorno, la vita della Marchesa di Barolo cambia rotta, indirizzandosi in una direzione di marcia ben precisa: migliorare le condizioni di vita disumane dei carcerati. Così, la nobildonna francese diventa la prima donna ad entrare tra i reclusi in quello che definisce “un covo tenebroso” e a dar vita alla prima riforma carceraria d’Italia. Facce pulite, abiti decenti, processi rapidi per chi era in attesa di giudizio, scuola, lavoro e assistenza religiosa per le detenute: una prigione “umanizzata”, insomma. Le tre carceri femminili esistenti – tutte con locali bui e fatiscenti – vengono abbandonate per una nuova sede, restaurata in parte a spese dei Barolo, della quale Giulia fu nominata sovrintendente.

Dal “prima” al “dopo” carcere: sorge così il Rifugio, un’opera voluta dalla Marchesa per l’educazione preventiva e riabilitativa delle ragazze a rischio e delle ex detenute.

In alcune di loro, grazie all’ efficace catechesi di Giulia, nasce addirittura il desiderio di una speciale consacrazione religiosa: nasce così la congregazione delle “Sorelle penitenti di S’ Maria Maddalena”, che oggi si chiamano “Figlie di Gesù Buon Pastore”. In un’aula del loro sontuoso palazzo torinese, i marchesi fondano il primo asilo infantile d’Italia. Poi l’improvvisa morte di Tancredi provoca la svolta definitiva nella vita di Giulia. “In nome di colui che è finito come un pezzente, io devo dedicarmi a tutti i miserabili”, scrive in una lettera.

Ed è proprio in questo periodo che la vita della Marchesa di  Barolo si incrocia con quella del giovane Don Bosco,

nominato nell’autunno del 1844 da don Giuseppe Cafasso cappellano dell’Ospedaletto di Santa Filomena, ricovero per bambine disabili, una delle o opere fondate dalla Marchesa insieme con il marito. E’ lavorando alle sue dipendenze, e vedendo fiorire in quel quartiere alla periferia di Torino ben otto opere messe in cantiere in pochi anni dall’instancabile, colta, bellissima e ricchissima nobildonna, che in Don Bosco nasce l’idea del “sistema preventivo” al maschile. A poche centinaia di metri dal Rifugio, la tettoia di Casa Pinardi, il 12 aprile 1846, diventerà il primo nucleo del Valdocco, cuore pulsante delle molteplici opere messe in cantiere dai Salesiani a servizio dei bisogni degli “ultimi” di Torino.

Donna volitiva, di carattere, abituata ad “ordinare” i fatti in base ai suoi disegni, Giulia cerca di non farsi scappare Don Bosco:

lo vorrebbe tutto per lei, gli promette tutto l’aiuto economico di cui ha bisogno. Per un periodo, il giovane Giovanni porta i “suoi” ragazzi all’interno delle strutture destinate alle ragazze, ma ben presto si capisce che la convivenza porta con sé i suoi problemi. Anche Don Bosco, del resto, ha un carattere volitivo: messo di fronte all’alternativa tra il rimanere alle dipendenze della Marchesa e il dedicarsi a tempo pieno ai suoi ragazzi, sceglie quest’ultima strada. Nel corso di un burrascoso colloquio, Don Bosco rinuncia all’offerta di Giulia che lo licenzia. Al termine dell’incontro, però, la marchesa si inginocchia davanti a lui chiedendogli di essere benedetta. Attraverso don Borel e don Cafasso, da allora in poi, continua a far giungere generose offerte per i suoi ragazzi. Juliette Colbert è morta a Torino il 19 gennaio 1864. Aveva quasi 78 anni. Secondo le sue disposizioni testamentarie, le sue cameriere la rivestirono dell’abito di terziaria di S. Francesco. E’ sepolta accanto al marito nella chiesa di Santa Giulia, da lei stessa fatta costruire nel quartiere popolare di Vanchiglia. E’ stata dichiarata Venerabile, insieme al marito Tancredi.

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