Anno Ignaziano: a Bilbao Gesuiti “in prima linea” per giovani e i migranti

Un'Università dove studiano 12mila studenti, che oggi accolgono i loro coetanei ucraini, e un centro di accoglienza per migranti che sviluppa un vero e proprio "network" per l'ospitalità, grazie anche all'attività di una Ong. È la fotografia dei Gesuiti a Bilbao, la città più popolosa dei Paesi Baschi

(foto Universidad de Deusto)

“Per noi è molto importante lavorare per la formazione integrale degli studenti”. Deusto è il quartiere di Bilbao, con vista Guggenheim, da cui l’Università dei Gesuiti prende il nome, e il vicerettore, Juan José Etxeberrìa Sagastume, racconta in questi termini l’ispirazione ignaziana del suo ateneo, il primo e più antico centro di studi di Bilbao, fondato nel 1886 dalla Compagnia di Gesù. “Humanitas, iustitia, fides, utilitas” sono gli ingredienti principali del modello educativo adottato dai Gesuiti. “Un’opportunità per trasformare le persone e così trasformare la società”, spiega il vicerettore a proposito dell’obiettivo dell’Università: “È una sfida grande, ma cerchiamo di fare quello che possiamo, a livello della ricerca, dell’insegnamento e dell’impatto sociale”. In questa prospettiva, risulta decisivo l’impegno per la formazione del personale che lavora all’interno dell’Iniversità su tutti gli aspetti che riguardano la missione della Compagnia e della Chiesa, in modo da poter trasmettere questi valori tanto agli studenti che a tutte quelle persone che si avvicinano a vario titolo all’ateneo, tramite un rapporto stretto di collaborazione con il territorio. Non un’isola felice ma distaccata dal mondo, e nemmeno una semplice fucina per formare “leadership”, ci tiene a precisare il gesuita a proposito di Deusto: la maggior parte dei 12mila studenti, ci rivela, appartiene alla classe media. Tra di loro, oggi ci sono anche dei ragazzi ucraini: in questi giorni ne sono in arrivo 80 e 30 famiglie hanno già dato la loro disponibilità all’accoglienza.

“Se la guerra finisce, torno là!”.

Mentre lo racconta con gli occhi lucidi, ma sereni, Ismail ha in mente l’Ucraina: per due anni è stata la sua terra promessa, raggiunta dal Marocco per studiare medicina. Poi quel maledetto 24 febbraio ha cambiato la sua vita: le bombe hanno raggiunto Kharkiv e quattro giorni dopo l’inizio della guerra ha dovuto lasciare il suo villaggio ad una ventina di chilometri dal confine con la Russia. Senza cibo, con i vestiti che aveva indosso è cominciata la sua odissea in treno e a poi piedi tra Slovacchia e Germania, da dove grazie ad alcuni amici è riuscito a raggiungere la Spagna. Qui a Bilbao, racconta, il suo lasciapassare è stata la sua tessera da studente universitario. Quando parla della sua vita nella Fundatión Ellacuria, il centro dei Gesuiti che si occupa dei migranti, cominciata due mesi fa, e di come è stato l’impatto in una terra sconosciuta e diversa, Ismail spiega che “se sai l’inglese, puoi trovarti a casa in ogni parte del mondo”. Cosa chiederesti a Papa Francesco? “Stop war”, risponde mostrando orgoglioso una spilla con questa scritta appuntata sulla maglietta. E il pensiero torna all’Ucraina: “Ho una sorella, là”, rivela a proposito della donna che l’ha accolto quando non aveva niente: “Lei sta lì per me”. È una donna anziana, non ha potuto unirsi a lui nel suo viaggio della speranza, ma lui le ha promesso di tornare. Joseph ha 23 anni ed è arrivato qui tre anni fa dal Marocco con un barcone. Fa fatica a parlare di sé, ma è anche fiero di raccontare come sta cercando di trovare un lavoro per proseguire il suo percorso di integrazione nella terra che lo ha salvato. È contento di fare da anfitrione agli ospiti distribuendo a tutti bicchieri d’acqua: ha un sapore buono e fresco, non come quello dell’acqua di mare che lo ha circondato in quella interminabile traversata, alla fine della quale è dovuto rimanere nascosto per un mese intero prima di poter passare la frontiera. Il terzo ospite della casa si chiama anche lui Ismail ed è arrivato dal Marocco passando per Melilla. Sono quattro anni che si dà da fare per sviluppare il network messo in piedi dai Gesuiti intorno ad una parola: accoglienza.

“Non ci siamo posti il problema se accogliere o meno, ma come accogliere”,

spiega padre Martín Iriberri Villabona, direttore della struttura, a proposito del discernimento ignaziano sulla condizione dei migranti che i Gesuiti hanno operato nella casa di accoglienza di Bilbao, situata poco lontano  passi dalla casa dove è nato padre Pedro Arrupe. È nata così Alboan, la Ong dei Gesuiti, grazie alla quale si portano avanti percorsi di integrazione il cui obiettivo è mettere in contatto la persona migrante col resto della comunità, tramite rapporti con le amministrazioni locali, programmi mirati di assistenza e cittadinanza che non si sono mai fermati neanche durante il periodo del Covid. Attualmente, 20 famiglie offrono accoglienza ai migranti, altre 40 hanno dato la loro disponibilità a farlo. In cinque anni di attività, sono state un centinaio le famiglie coinvolte. “Lo studio è il futuro”, spiega Ismael pensando a tanti suoi coetanei in Marocco che non possono pagarsi gli studi perché devono mantenere la famiglia: “Qui ho ricevuto tanto aiuto e posso aiutare chi ora ha bisogno”, racconta spiegando il suo impegno per favorire il processo di integrazione dei ragazzi migranti, aiutati insieme alle loro famiglie non solo con corsi di lingua ma anche con occasioni di socializzazione, come gli incontri pomeridiani o serali con i loro coetanei più fortunati che studiano a Deusto. All’interno di Alboan-Entreculturas, Ohana Sancho porta avanti molti progetti, tra cui quello sulla promozione dell’uguaglianza di genere: e lo fa, ci tiene a sottolineare, accettando la sfida di portare un contributo “al femminile” in una realtà dove ci sono solo uomini. L’ultima sua fatica è stata quella di operare una sorta di “gemellaggio” tra le donne africane della Repubblica del Congo e un gruppo di giornaliste basche, in modo che lo scambio di esperienze porti ad una maggiore conoscenza reciproca e ad un avanzamento negli obiettivi di sviluppo dell’Agenda 2030 dedicata a questo tema. Lei la chiama “cittadinanza globale”, testimoniando come una metodologia basata sul lavoro sul campo e sulla sensibilizzazione in piccoli gruppi risulti vincente.

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