“…in niente altro, se non in preghiera”

Nel filo della narrazione di Marco, i discepoli, rientrati in casa, rivolgono a Gesù la domanda rovente. Chiedono perché essi non hanno potuto liberare il ragazzo posseduto da un demonio muto e sordo, visto che Gesù stesso aveva affidato loro il mandato di predicare la venuta del Regno, con il potere di scacciare i demoni (Mc 3,15). Ai discepoli Gesù risponde, perentorio quanto misterioso: “questo genere, in niente può essere scacciato se non in preghiera”. Quando il Maligno è muto e sordo solo la preghiera lo fronteggia. In preghiera, non “con” la preghiera: pregare non è mai atto strumentale ma è l’atteggiamento profondo della fede, espressione del legame che libera. È il caso serio della fede, mai potere miracolistico

foto SIR/Marco Calvarese

C’è un’affermazione perentoria di Gesù. Pronunciata da Gesù in una circostanza particolare, di drammatica impasse, è parola che arriva a toccare il nostro oggi di umanità che, sconcertata e scossa da assurda violenza, non sa come uscire dall’impotenza. È parola di fuoco, fa seguito a un indirizzo aspro a “questa generazione” e alla sua insopportabile inerzia, e colpisce noi oggi, nella impotenza che soffriamo ad arginare violenza cui – consapevoli o incoscienti – tutti abbiamo cooperato.

Nel filo della narrazione di Marco, i discepoli, rientrati in casa, rivolgono a Gesù la domanda rovente: è la terza domanda – nella narrazione di Marco – che i discepoli rivolgono a Gesù. Chiedono perché essi non hanno potuto liberare il ragazzo posseduto da un demonio muto e sordo, visto che Gesù stesso aveva affidato loro il mandato di predicare la venuta del Regno, con il potere di scacciare i demoni (Mc 3,15).

Ai discepoli Gesù risponde, perentorio quanto misterioso: “questo genere, in niente può essere scacciato se non in preghiera”. Quando il Maligno è muto e sordo solo la preghiera lo fronteggia.

In preghiera, non “con” la preghiera: pregare non è mai atto strumentale ma è l’atteggiamento profondo della fede, espressione del legame che libera. È il caso serio della fede, mai potere miracolistico.

La preghiera è tale in quanto è la voce del povero che si fa responsabile. Non esistono professionisti della preghiera, non è prerogativa posseduta in proprio. Nasce e vive della percezione di radicale – appunto – precarietà e del radicale coinvolgimento nella realtà. Quando, come Abramo di fronte alla sventura di Sodoma e Gomorra, sta davanti a Dio (Gn 18,22). Intercessione. Quello che i discepoli non avevano fatto era di mettersi in mezzo: totalmente dinanzi a Dio e totalmente riguardati dal padre e dal ragazzo vittima del demonio muto e sordo.

La preghiera è un’espressione di legame – il legame totalmente gratuito – che ci fa umani. La preghiera rivela la qualità del legame con gli altri, con la storia comune, e con Dio: l’autentica preghiera, “fatta con fede” come dice Giacomo (3,15). Come Gesù nell’Ora della sua suprema assunzione di responsabilità per l’umano e totale impotenza fatta preghiera: “fu esaudito per il suo pieno abbandono” (Eb 5,7).

La preghiera è il grido della fede, nonostante possa essere – e, di fatto, in noi sia sempre – mescolata all’incredulità. È sempre anche invocazione della grazia di credere.

Pertanto chi prega, è intercessore ferito. Solo immerso, battezzato in Gesù, può osare.

Come Abramo. Come Giacobbe. Come il Salmista. “Io sono povero e infelice” (Salmo 69,30). Ben lo sapevano i martiri, che di fronte alla estrema violenza, non hanno altra parola per esorcizzare la violenza che invocare il perdono.

Ai credenti che hanno ricevuto la parola della rivelazione biblica, è data – per maturare la preghiera d’intercessione, la preghiera “potente” – la preziosa traccia di preghiera dei Salmi, che raccolgono il grido, l’esorcismo orante di millenni di lotta contro iniquità e sopruso.

“Poni fine al male dell’empio, rafforza l’uomo retto tu che provi mente e cuore, Dio giusto!” (Salmo 7,10). Nessuno davanti a Dio è innocente, se non l’Unico.

Rimane – in momenti estremi come quello che stiamo vivendo – impressa in cuore la testimonianza dei martiri. Non solo i primi, i più vicini a Gesù – Stefano, Ignazio, o Policarpo, o Perpetua.

Anche i più vicini a noi. Penso a D. Bonhoeffer: “Il nostro essere cristiani si riduce oggi a due cose: pregare e operare tra gli uomini secondo giustizia”.

O i monaci algerini: “C’è qualcosa di singolare nel nostro modo di essere Chiesa, di reagire agli eventi, di attenderli, di viverli. È come se ci sentissimo responsabili non di qualcosa da fare ma di qualcosa da essere, qui e oggi, come risposta di verità, risposta di amore. Le parole dei salmi (nell’Ufficio delle Ore) resistono, fanno corpo con la situazione di violenza, di angoscia, di menzogna, di ingiustizia … è questo il lavoro della fede”. E in realtà chi prega i salmi quotidianamente scopre questa miniera: il Salterio è braciere di tutti i desideri di senso che fremono nel corpo dell’umano. Dai salmi apprendiamo che quando preghiamo, non lo siamo mai soli: pur ignari, siamo immersi in un fiume impetuoso di invocazioni che ci precede e che prosegue dopo di noi.

Il cardinale Carlo Maria Martini comprese fortemente il mistero della preghiera quando, concluso il ministero episcopale, scelse di ritirarsi a Gerusalemme, al cuore del conflitto israeliano-palestinese, semplicemente come intercessore. E la sua intercessione ricevette compimento nella infermità più totale.

Soprattutto “quando sono scosse le fondamenta” (Salmo 11,3), per camminare verso un’umanità fraterna, la potenza è attingibile solo dalla preghiera.

* monaca di Viboldone

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