“Ci sono quelli della nostalgia, che custodiscono le fotografie degli eventi: ma così c’è il rischio di intendere e vivere anche il mistero dell’Ascensione, dicendo ‘è salito al cielo, è una storia finita’. Invece, con la Pasqua di Gesù può cominciare una storia nuova finché arriviamo tutti all’unità della fede, fino all’uomo perfetto. Dunque, l’ascensione non è una conclusione, ma un nuovo inizio che rende necessaria la missione”. A dirlo è stato l’arcivescovo di Milano Mario Delpini che, in Duomo, presiedendo la celebrazione eucaristica nella solennità dell’Ascensione, ha indicato con queste parole il modo con cui interpretare il senso profondo del giorno che ricorda la salita di Gesù al cielo, simboleggiata, per un’antica tradizione della chiesa cattedrale, dal grande cero pasquale elevato alla sommità dell’abside dove rimarrà fino a Pentecoste. Rito che si compie durante la proclamazione del Vangelo e che, in Duomo, è documentato già nel XV secolo, epoca a cui risale anche il candeliere pensile gotico-rinascimentale dorato che porta il cero stesso.
Ma con quale atteggiamento, allora, vivere questo nuovo inizio? Non certo essendo “quelli del ricordo”, ma con la speranza fiduciosa “nella promessa che ne invoca il compimento”, anche se “nella nostra Chiesa, forse, l’ossessione della programmazione, le preoccupazioni per il futuro delle nostre comunità, la frenesia delle iniziative” non assomigliano molto ai sentimenti di quell’attesa capace di sconfiggere un’altra convinzione ormai diffusa: “Il pregiudizio demoniaco che Gesù sia una rovina e seguirlo una perdita”.
E questo anche se – ha osservato ancora mons. Delpini – la missione può apparire sproporzionata. “Effettivamente c’è ragione di pensare che i discepoli siano inadeguati, fragili, ridotti a pochi: diventiamo sempre di meno. L’ambiente che ci sta intorno è sempre meno disponibile, le persone sono sempre più indifferenti, quindi, viene da pensare che sia meglio lasciare perdere e stare tranquilli con coloro che condividono le nostre sensibilità e la nostra fede. Ma Gesù promette una forza che non viene dalla buona volontà, che non programma un’accorta strategia, che non cerca alleanze promettenti utilizzando gli strumenti disponibili per convincere come tentativi di reagire al senso di sconfitta che talvolta accompagna i discepoli, che si tratti dei social o di qualsiasi altra forma di comunicazione. La forza viene dallo Spirito perché è piuttosto affidamento che energia, è docilità piuttosto che protagonismo”.