Sudan. P. Kizito: “C’è bisogno tutto”

In Sudan è in corso la più grande crisi umanitaria al mondo. Sono oltre 30 milioni le persone che hanno bisogno di assistenza umanitaria, la metà sono bambini. A causa del conflitto in due anni quasi 15 milioni di persone sono sfollate all’interno del Sudan e oltre i confini.

In Sudan è in corso la più grande crisi umanitaria al mondo. Sono oltre 30 milioni le persone che hanno bisogno di assistenza umanitaria, la metà sono bambini. A causa del conflitto in due anni quasi 15 milioni di persone sono sfollate all’interno del Sudan e oltre i confini. Un esodo di persone di cui la metà sono bambini. Un milione sono solo nella zona dei Monti Nuba, l’altopiano del Sud Kordofan in Sudan dove ci sono due milioni di residenti.
“Sembra incredibile ma è proprio così” conferma Padre Renato Sesana, conosciuto con il nome di Kizito (il nome del più piccolo dei Santi martiri dell’Uganda), classe 1943, di origine lecchese, da una vita missionario in Africa. “Lo scorso novembre – prosegue – sono riuscito ad andare lì e ho potuto vedere le statistiche ufficiali, 998.350 persone registrate contea per contea dall’agenzia sudanese degli aiuti con metodologie codificate. La zona dei Nuba è una regione isolata, e lì ho visto una situazione bella e drammatica nello stesso tempo. Bella perché la guerra del Sudan, in corso da due anni, ha fatto sì che le due parti in guerra non si sono più occupate di questa regione. I Nuba tradizionalmente si sono sempre tenuti fuori dalle liti, dalle guerre degli altri, non hanno mai interferito né preso posizione per l’uno o per l’altro. Quindi lì abbiamo trovato paradossalmente una situazione di pace con la gente che da tutto il Sudan si riversa verso quei Monti per cercare riparo, perché sanno che lì possono vivere in pace”.
E poi accolgono, condividendo il poco che c’è.


“Per fortuna – continua padre Kizito – la zona è grande. Ci sono tanti spazi dove non c’è niente. Ci sono immense zone boschive, savane e lì vedi la gente che sta costruendo una capanna con legname, con erba secca. È un fai da te, ognuno si è organizzato. A nessuno viene negato un pezzo di terreno da coltivare e la gente si arrangia perché non c’è quasi niente. In genere si formano gruppi di non più di 20.000-30.000 persone. C’è solo una zona vicino a Kadugli, che è una zona molto grande, dove forse ce ne sono 200.000, però sempre abbastanza sparpagliate, perché quello che non manca è proprio la terra”.


Per il resto c’è bisogno tutto, di cibo e di medicine. Coordinati da un medico americano, Tom Catena che ha aperto una struttura ospedaliera e ogni giorno è a servizio delle persone più in difficoltà, alcuni infermieri girano per i campi profughi ma al di là di qualche aspirina, di qualche disinfettante non è che possono fare molto. I casi più gravi devono essere portati in ospedale. Però la cosa positiva è che non ci sono più ferite da armi da fuoco, ormai da tempo, perché la zona dei Nuba è assolutamente sicura. E questo è un segno di speranza.
“Sì, i Nuba mi danno speranza, nel senso che vedo questa resilienza, questa capacità di essere lì in anni e anni di isolamento, non più adesso di guerra aperta, eppure continuano ad andare avanti, con la fiducia di riuscire ad arrivare alla pace, a costruire pace nella loro terra. È una forza grande e un segnale importante. Per questo ho pensato che sarebbe bello andare di nuovo tra loro come segno giubilare. Vorrei andare in novembre perché ora cominciano le piogge e poi fino a fine ottobre viaggiare con l’auto è un’avventura, perché le strade sono ammassi di fango”.

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