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Afghanistan. Camminando per le strade di Herat

Continua il racconto dello scrittore afghano, Gholam Najafi, tornato nel suo Paese natale con il sogno di costruire una scuola per i bambini nei pressi di Herat

Herat (Foto Gholam Najafi)

(Herat) Oggi è una giornata di dicembre calma e tranquilla. I venerdì sono passati senza i soliti feriti e morti a cui il popolo afghano si è dovuto abituare. La città di Herat è molto gradevole per fare due passi, i bambini e le bambine giocano per la strada, ognuno di loro sa creare un nuovo gioco, perché molti parchi sono ancora chiusi oppure vi possono accedere parzialmente solo gli uomini o le famiglie.

Herat (Foto Gholam Najafi)

Sono uscito di casa e spalancato la porta nel quartiere Hazara a Jibrail, dove moltissimi Hazara (appartenenti alla omonima minoranza etnica, di fede sciita) hanno cercato un rifugio emigrando dai luoghi di nascita. Si tratta di vecchi villaggi dove quest’estate i contadini sono stati colpiti da torrenti di pioggia che hanno distrutto interamente le loro coltivazioni. Mi raccontano la trasformazione delle loro terre: “uscendo dalla porta o guardando dalla finestra non riconoscevamo più i nostri campi da quante pietre quella tempesta aveva portato con sé, tutti i nostri raccolti spazzati via, trascinati in altre terre lontane, alberi, mucche, capre, pecore, galline. Le case sono state sepolte dalle macerie. Non era rimasto più nessuno se non quei pochi che si erano rifugiati in una grotta. Il cielo non aveva i soliti lampi, ma un continuo tuono, e non mostrava pietà per noi contadini. La tempesta sembrava partita dalle nostre case; avevamo mandato messaggi ai villaggi più a valle, dove c’era ancora ancora il sole, dicevamo di abbandonare le loro case e rifugiarsi in zone alte sulle montagne. I rami degli alberi facevano un piccolo movimento per poi sparire sotto violentissime raffiche. Il giorno dopo, quando è uscito il sole anche da noi, molti hanno iniziato a cercare gli alberi delle loro proprietà, solo gli alberi perché gli animali erano già carcasse. La tempesta aveva ferito i loro fusti rendendoli sconosciuti. Le case erano state abbattute dalle onde della intensa pioggia di quella settimana. I tuoni avevano colpito violentemente questi villaggi afghani, dopo 40-42 anni di tranquillità. Sembrava che tutto fosse da risistemare”. Qui oggi, in questo quartiere, ognuno cerca di inventarsi un lavoro per sopravvivere, oppure lascia la famiglia e va in Iran o in Pakistan. Tutta Herat è fra le braccia di una serie di catene montuose, ma non solo, la città è circondata dalle diversità linguistiche fra le varie etnie e dalla diversità di fede. C’è, però, una continua festa tra chi arriva e chi accoglie i nuovi arrivati, i contadini inizialmente festeggiano lo scampato pericolo mescolando i loro costumi, tradizioni, cibi, poi, giorno dopo giorno, si rendono conto delle difficoltà economiche. Qui chi ha denaro vive bene e chi non ne ha inizia a sentire la disperazione. Non è un problema di oggi, già ne scrivevo nel mio libro “Il tappeto afghano” di questo cambiamento e di questa mescolanza.

Afghanistan, (Foto Gholam Najafi)

Finché non ci sarà la libertà di girare il mondo e conoscere, ognuno penserà che l’incubo di quest’estate sia finito, invece è appena iniziato, come questo vento autunnale secco e duro come una pietra. Io non festeggerei tanto né per questa strana stagione né vorrei illudermi per quello che è appena finito. Vorrei scrivere, scrivere finché la mia penna è nella mia tasca, come la mia valigia sempre pronta per partire per l’Italia, dove ho lasciato cari amici e parenti, ma vorrei anche ritornare qui dove il mio cuore vive con più serenità, perché conosce ormai bene le tante difficoltà del vivere. Cammino in mezzo alla nebbia e fingo di essere a Venezia, invece no, sono qui a camminare sul fango di questa città, sento profumi familiari, racconti già sentiti mille volte quando ero bambino.

Afghanistan, zafferano (foto Gholam Najafi)

Moltissime donne curano dolci fiori, i fiori dello zafferano, che conosciamo fin da piccoli: sono petali che sembrano aver rubato i baffi e le ciglia delle farfalle. Ogni donna prende 40/50 centesimi al chilo per questi fiori. Altri arrivano con i semi di girasole, mandorle, arachidi, uvette, albicocche secche, coltivate e raccolte da loro stessi; l’Afghanistan è un paese ricchissimo di questa frutta secca. Molto spesso i venditori si addormentano sulla propria fatica ma poi cercano di alzarsi in piedi. Io giro per queste strade e mi scoppia il cuore nel vedere come la gente abbia fiducia anche in un momento così difficile per l’economia afghana. Torno sempre a casa con un autista che è nato in questa città e che conosce ogni più piccola via senza navigatore, andando verso il nostro quartiere lo ascolto: “questa zona della città una volta non interessava a nessuno, per il suo vento forte, per la quantità di sabbia e polvere che d’estate arrivava nelle case, era un deserto, mentre ora sta diventando la zona che più penetra nel cuore”. Intorno alla strada c’è una folla di drogati che si stringono fra di loro sotto un velo, senza voce.

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