Stati Uniti, 1 anno di Biden presidente. Faggioli: “Ha lavorato molto, ma il problema è la crisi di civiltà vissuta dal Paese”

Dopo un anno i sondaggi dicono che l'indice di gradimento è sceso sotto il 50%, ma, secondo l'ordinario del Dipartimento di Teologia e Scienze religiose alla Villanova University di Filadelfia, Biden merita come voto un "B+". Tra i consigli che gli darebbe, stare di più tra la gente, decidere cosa fare con Kamala Harris e risolvere la questione ideologica del partito democratico

(Foto AFP/SIR)

(da New York) Il 20 gennaio 2021, nello stesso giorno del giuramento di Joe Biden a 46° presidente degli Stati Uniti, il libro di Massimo Faggioli, “Joe Biden e il Cattolicesimo negli Stati Uniti” usciva nelle librerie. Faggioli, ordinario del Dipartimento di Teologia e Scienze religiose alla Villanova University di Filadelfia, è stato ed è un attento analista della politica statunitense e dei suoi legami con la fede e le tradizioni religiose. Gli abbiamo chiesto un bilancio del primo anno di presidenza Biden, nell’anniversario del giuramento presidenziale. Il presidente statunitense riceve un “B+” da Faggioli e viene promosso “perché ha lavorato molto e ha riportato la presidenza a una certa normalità” anche se i sondaggi danno indici di gradimento inferiori al 50%. Per il docente il problema non è tanto la presidenza Biden, ma “la crisi di civiltà vissuta dal Paese e la crisi del capitalismo secondo il modello americano”.

Professore nel suo libro aveva fatto delle previsioni sull’era Biden. Si sono avverate?

Questo primo anno di presidenza direi che ha confermato le tesi del libro e cioè che

Joe Biden è un tipo di cattolico totalmente diverso da altri cattolici negli Stati Uniti.

L’altra conferma è che la sua presidenza ha riallacciato un rapporto normale con la Santa Sede e la terza conferma è che ci sono tensioni, alcune evidenti e altre più latenti tra la visione del mondo di Papa Francesco e quella dell’America di Biden. Anche se la copertina dell’edizione americana del libro era molto ottimista, la mia analisi era ed è molto più cauta e si domanda se la presidenza Biden è un ritorno ad un’epoca felice, ad un’epoca migliore o è un passaggio transitorio e non si sa cosa aspettarsi dopo.

Come definirebbe questo primo anno di presidenza Biden?

Un anno con molti chiaroscuri. Il fatto principale è che Biden è un presidente che non ha una maggioranza al Congresso; o meglio ha una maggioranza teorica ma, nella realtà, ci sono due senatori su cui non può contare e quindi la sua agenda è rimasta bloccata. L’altro fatto da non sottovalutare è l’effetto della pandemia. Dopo due anni interi in cui si sta pagando un prezzo altissimo per la vita di ognuno, il malcontento si scarica sulla presidenza anche se non è dovuto interamente alla presidenza. È vero ci sono stati errori e si stanno ricalcolando degli aspetti anche in vista delle elezioni di novembre dove si rischia davvero un disastro.

Il gradimento del presidente ad un anno del suo ingresso è sceso al 48,9%, secondo il sondaggio effettuato da Gallup. Qual è il problema di Biden?

Si tratta di un problema che Biden non può risolvere, perché c’è un sistema politico che non funziona e c’è un partito, quello repubblicano, che ha abbracciato una logica, a mio modo di vedere, estremista che si manifesta nei ritardi dell’approvazione delle nomine di gabinetto, all’esclusione del diritto di voto in molti Stati. I repubblicani si sono rivelati un partito su cui è difficile contare anche per il normale funzionamento della democrazia. Biden può far ben poco per questo e non può incidere su una trasformazione evidente di questo partito. La democrazia americana si regge su due partiti ed è simile ad un ballo di coppia, ma se uno dei partner non vuole ballare, anche l’altro resta fermo. Ribadisco che, nonostante i tanti errori, il problema non è l’azione o l’effettività di un presidente ma c’è un problema nel sistema.

Può chiarire meglio cosa significa “un problema nel sistema”?

Non voglio suonare apocalittico ma stiamo attraversando una crisi di civiltà che è molto più profonda di una crisi politica o costituzionale.

È qualcosa che abbiamo visto sorgere nel 2008 con Sara Palin, leader del movimento ultraconservatore Tea Party. Quel tipo di conservatorismo senza freni, che straparla, che è buffonesco, che è fiero della propria ignoranza, sembrava un incidentei di percorso, in realtà tutte quelle cose avevano messo radici e operato cambiamenti profondi nell’anima del Paese. Assistiamo quindi ad un abbandono dell’immaginario morale e religioso degli americani; un religioso magari vago ma in cui ci si ritrovava, a destra o a sinistra, ma il fiume era unico. Invece i vari processi di diversificazione sia culturale sia religiosa, ma anche la secolarizzazione hanno liberato tutte queste presenze che erano già dentro questo grande fiume e le hanno diffuse nelle direzioni più disparate, dove manca un centro, non tanto moderato, ma di buon senso. C’è quindi la rivendicazione di due visioni del mondo che sono estreme e che non si parlano, né si conciliano.

Se la crisi attraversa i repubblicani, non sembra stia risparmiando i democratici. Come vede il partito del presidente?

Il partito è molto diviso e che non ha ancora deciso se vuole tornare a essere il partito democratico dei lavoratori, i blue-collars, che parla all’America della classe media, o se invece vuole essere il partito degli intellettuali che hanno un visione del mondo più radicale sulle questioni di giustizia sociale e interrazziale. I repubblicani hanno capito che serve una certa narrazione semplificata che si rivolge al mito americano, all’America bianca e hanno visto che funziona e crea una base. I democratici non lo hanno capito ancora e la prova è quanto sta succedendo alla vicepresidente. Kamala Harris è stata scelta perché il suo profilo rispondeva a un certo tipo di demografia, ma non aveva una base politica se non nella Bay Area della California; mentre tutti sanno che negli Usa le elezioni non si vincono a New York o a San Francisco ma altrove. Ad esempio quando Kennedy scelse Johnson, non scelse solo un vicepresidente ma scelse il Texas. Sulle questioni religiose, come su quelle morali o sull’aborto, i democratici continuano a fornire munizioni agli avversari e non si preoccupano di sostenere Biden, perché sta ad un bivio.

Se si trovasse a dare tre consigli al presidente Biden per il nuovo anno da dove comincerebbe?

Tenendo conto della situazione sanitaria, gli consiglierei di andare più in mezzo alla gente, di viaggiare di più e cercare di far capire quello che di importante ha fatto. A mio parere, guardando alle politiche keynesiane, ha sovrabbondato ed è stato coraggioso. È stato, certamente, danneggiato dalla pandemia che lo ha anche privato degli incontri; perché

anche se invecchiato, Biden è molto efficace nei rapporti con gli altri.

Il secondo consiglio riguarderebbe la vicepresidente. Deve cercare di capire cosa farne perché si comincia a vociferare che ci sarà un altro candidato o un assistente e questo è preoccupante. Infine, bisognerebbe risolvere la questione ideologica del partito, che si trova in mezzo ad un bivio e deve ricatturare quell’America media che si può salvare dal trumpismo. Io non credo che le masse andranno a votare per una certa élite del partito.

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