Pakistan. Saleem (ambasciatore in Italia): “Con i lockdown intelligenti stiamo vincendo la sfida”

Dalla gestione della pandemia di Covid-19 alla geopolitica, fino al rapporto con le minoranze religiose. Conversazione a tutto tondo con il nuovo ambasciatore del Pakistan in Italia, Jahuar Saleem

Sergio Mattarella e Jauhar Saleem (Foto: Francesco Ammendola - Ufficio per la Stampa e la Comunicazione della Presidenza della Repubblica)

Con una strategia di “smart lockdown”, ossia chiusure intelligenti solo nei territori più colpiti dal Coronavirus, il Pakistan ha dimostrato una buona capacità di gestione della pandemia. E ora inizia a tirare un sospiro di sollievo. A fronte di 221 milioni di abitanti, dall’inizio della crisi i contagiati sono stati 280.029, con 5.984 morti totali (dati al 3 agosto). Numeri tutto sommato ridotti, se rapportati alla popolazione, in uno dei Paesi a più alta densità abitativa del mondo. “La buona notizia di questi giorni – dice al Sir in video chiamata l’ambasciatore del Pakistan in Italia Jahuar Saleem  – dopo aver avuto picchi di 7.000 casi al giorno è il calo dei nuovi positivi e dei morti”, rispettivamente 331 e 8 decessi.

Chiusure solo nelle zone rosse. “Impossibile bloccare completamente un Paese così grande – prosegue Saleem, da due mesi nella sede romana dopo la Germania – , con milioni di persone pagate a giornata. Altrimenti non sarebbero potute uscire per lavorare. Il governo ha sostenuto alcune di queste famiglie per un mese o due ma non si poteva fare a tempo indeterminato. Noi non riceviamo aiuti finanziari dall’esterno come l’Italia, che avrà risorse dall’Unione europea”. Il governo del Pakistan ha perciò deciso di chiudere in lockdown solo le zone rosse, invitando tutti ad indossare le mascherine e adottare le necessarie misure di prevenzione e distanziamento sociale. Un numero totale di 280.000 contagi su 221 milioni di abitanti, sottolinea l’ambasciatore, “significa che anche se non abbiamo infrastrutture sanitarie e risorse come quelle occidentali siamo stati in grado di gestire il picco della crisi”.

“Ora ci fa molto piacere constatare che la situazione sta migliorando”.

Le ripercussioni della pandemia sul fronte economico sono però tante e la sfida è ancora grande: il Paese asiatico sta fronteggiando una crisi finanziaria, ha tassi di disoccupazione in aumento e non riceve aiuti dall’estero. “Tra i passi che il governo si prefigge per rilanciare l’economia – spiega – c’è la promozione di investimenti nel settore dell’edilizia e delle costruzioni, collegato a molte altre attività economiche”. Sul Pakistan, come su tanti altri Paesi in via di sviluppo, gravano le somme di debito estero (con gli interessi) accumulate negli anni, per cui le richieste principali sono rivolte alle grandi istituzioni finanziarie, alla Banca mondiale e al Fondo monetario internazionale. “Tutte le nostre entrate finiscono nel pagamento del debito – ricorda Saleem -. Abbiamo bisogno di aiuto con il prolungamento delle scadenze dei pagamenti o con remissioni del debito.

Questo è il tempo in cui i Paesi sviluppati possono aiutare quelli in via di sviluppo. È una situazione straordinaria che richiede una iniziativa straordinaria”.

Anche sul fronte geostrategico c’è molta complessità. Le frontiere con l’India, con la Cina, con l’Afghanistan sono caldissime. L’ultimo episodio è avvenuto la scorsa settimana al passaggio doganale tra l’Afghanistan meridionale e il Belucistan pachistano. La gente ha iniziato a manifestare perché la frontiera era chiusa a causa della pandemia. Le artiglierie pachistane hanno bombardato, ci sono stati morti e feriti. L’Afghanistan accusa il Pakistan di proteggere i talebani che si sono rifugiati nel Paese ma lo stesso Pakistan ha avuto migliaia di vittime per mano dei talebani. “Noi diciamo da tempo che la guerra non è la soluzione. La cosa migliore è risolvere le questioni con il dialogo”, afferma l’ambasciatore.

L’ambasciatore Saleem durante la video chiamata

La questione del Kashmir. La questione più scottante è però quella del Kashmir indiano, territorio conteso dal 1947, con spinte indipendentiste da parte della popolazione musulmana kashmira e 800mila militari indiani che controllano il territorio, uno dei più militarizzati al mondo. Con numerose denunce di violazioni dei diritti umani, migliaia di detenuti politici. Il 5 agosto ricorre il primo anniversario della cancellazione dell’autonomia da parte del governo indiano, che ha imposto di nuovo il coprifuoco totale in Kashmir per il rischio di attentati e violenze. Il 5 agosto del 2019, il governo centrale ha infatti cancellato l’autonomia del Jammu e Kashmir, lo Stato conteso tra India e Pakistan, abrogando la clausola della Costituzione che garantiva lo statuto speciale al Kashmir e trasformandolo in due unità territoriali sottoposte all’autorità del governo centrale. Da allora i kashmiri sono stati isolati per oltre sei mesi, senza comunicazioni telefoniche e internet. “La popolazione del Kashmir sta soffrendo”, ci tiene a ricordare l’ambasciatore, citando le raccomandazioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, ossia “un referendum per lasciare ai kashmiri la decisione e il diritto all’autodeterminazione. Ma l’India non ha mai rispettato questa proposta”.

I problemi con le minoranze religiose. Infine, c’è il problema delle minoranze religiose, delle spose bambine cristiane rapite e convertite a forza, della legge sulla blasfemia ancora in vigore e degli abusi che ne conseguono. “In ogni Paese del mondo le minoranze hanno problemi. Nessuno è perfetto, nemmeno il Pakistan. Ma facciamo ogni sforzo possibile per integrarle”, ammette Saleem, mettendo però in evidenza il clima generale di buona convivenza, anche sulla base di una Costituzione orientata al superamento delle discriminazioni.

“Il problema non è tanto la religione quanto il fatto che fanno parte dei segmenti più vulnerabili della società.

Noi cerchiamo di superare queste discriminazioni: ad esempio in Parlamento il voto dei cristiani vale due, abbiamo un numero di rappresentanti delle minoranze molto più alto rispetto ad altri Paesi. In una democrazia, senza strumenti di salvaguardia delle minoranze, possono nascere scontri”. Episodi eclatanti come la vicenda di Asia Bibi – la madre di cinque figlie condannata alla pena di morte per blasfemia e ora in salvo all’estero – o le spose bambine “sono crimini compiuti sia contro musulmani sia contro cristiani – puntualizza – e in quanto tali spetta al sistema giudiziario affrontarli”. Ricorda inoltre che il 90% delle persone accusate di blasfemia sono musulmani e conclude: “Durante un recente incontro in Germania ci dissero che non avremmo mai risolto il problema di Asia Bibi, perché nessun giudice avrebbe avuto il coraggio di emettere una sentenza. Invece siamo riusciti”.

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