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Israele e Hamas: voci da Gaza, “non ci interessa cosa accade fuori. Vogliamo solo sopravvivere”

"Vogliamo solo sopravvivere, non ci interessa quello che accade fuori dalla Striscia. Non abbiamo cibo, medicine, né casa, né lavoro. Ci hanno tolto anche il futuro": così alcune voci, raccolte dal Sir a Gaza, seguono quanto sta avvenendo fuori dall'enclave palestinese. A preoccupare non è tanto l'escalation di tensione tra Israele e Iran, quanto come sopravvivere alla guerra in corso. Timori per la possibile invasione di Rafah.

People, including children, wait in a long line to receive a small amount of food in the city of Rafah, southern Gaza Strip. (foto: Unicef)

Il Medioriente è “sull’orlo di un conflitto regionale su vasta scala. Mettere fine alle ostilità a Gaza disinnescherebbe in modo significativo le tensioni in tutta la regione”: è la convinzione del Segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, che ieri ha parlato al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. A Gaza si vive “un inferno umanitario” ha aggiunto, con 1,7 milioni di gazawi costretti a fuggire dal Nord per cercare rifugio al Sud, che vivono in tende di fortuna o rifugi temporanei. Mentre cresce la tensione per una possibile invasione di Rafah da parte dell’esercito israeliano, sale anche il bilancio dei morti e feriti nell’enclave palestinese. Secondo Hamas sarebbero 34mila i morti, i feriti circa 77mila. Per Tess Ingram, specialista di Comunicazione dell’Unicef, “a Gaza, a causa della guerra, un bambino viene ucciso o ferito ogni 10 minuti. Oltre 12.000 quelli feriti, quasi 70 al giorno”. In sei mesi di guerra i minori morti sarebbero circa 14mila. Rimarca ancora l’Unicef: “l’84% delle strutture sanitarie e il 62% delle abitazioni nella Striscia sono state danneggiate o distrutte. Il 57% delle infrastrutture idriche è stato messo fuori uso”. E cresce adesso anche l’emergenza rifiuti come denunciato dal Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (Undp) che, se non risolta, aggraverà le sofferenze della popolazione con pesanti riflessi sulla salute della popolazione.

(Foto Parrocchia latina Gaza)

La preoccupazione più grande. Nel frattempo, dal Kuwait, è arrivato un carico di aiuti destinato alla parrocchia cattolica di Gaza che ospita circa 600 sfollati cristiani. A consegnarli è stata la Mezzaluna Rossa, secondo quanto riferito dalla stessa parrocchia. La conferma al Sir è arrivata poi da suor Nabila Saleh, la religiosa delle Suore del Rosario di Gerusalemme, originaria dell’Egitto, uscita da pochi giorni dalla Striscia a causa di precarie condizioni di salute. “Hanno consegnato pacchi di farina che permetterà al forno di riprendere la produzione del pane”. La religiosa ha sentito il vicario della parrocchia, padre Youssef Asaad, che si trova all’interno del compound parrocchiale (il parroco padre Gabriel Romanelli, che si trovava fuori dalla Striscia allo scoppio della guerra il 7 ottobre, non riesce a farvi rientro, ndr.). “Le notizie dell’attacco dell’Iran preoccupano tutti gli sfollati nella parrocchia soprattutto per un possibile allargamento del conflitto. Ma la preoccupazione maggiore – riporta la religiosa – adesso è sopravvivere alla guerra a Gaza. Bombardamenti, mancanza di cibo, acqua e medicine stanno mettendo a dura prova la popolazione stremata. Molti cercano di uscire dalla Striscia, tra loro anche diversi cristiani. Gaza rischia di vedere partire tutti i suoi fedeli cristiani e Dio solo sa quanto la presenza cristiana sia fondamentale in questo lembo di terra”. Chiaro il riferimento all’opera di assistenza materiale, con cliniche mobili, scuole, cura dei disabili e anziani, condotta dalla chiesa locale in sinergia con Caritas Gerusalemme. Suor Nabila, fino al 7 ottobre è stata preside di uno degli Istituti più grandi della Striscia, una scuola cattolica frequentata da circa 1300 studenti di varie età, in larghissima maggioranza musulmani. “Oggi – dice – la scuola non esiste più perché è stata bombardata e distrutta. Speriamo di ricostruirla ma non sappiamo come e quando. Ci vorranno anni per rimettere in piedi Gaza”.

Striscia di Gaza, Rafah (Foto K/Sir)

In fila a Rafah per un visto. Preoccupazioni condivise anche da Rashid (nome di fantasia, ndr.), infermiere in un ospedale del sud di Gaza, tra i pochi ancora parzialmente in funzione, che solo pochissimi giorni fa è riuscito a raggiungere l’Egitto, per seguire un corso di aggiornamento professionale, e ora sta cercando di far uscire anche la sua famiglia: “Ma se non riuscirò nell’intento allora farò ritorno. Se devo morire morirò con la mia famiglia e nella mia terra”. “Quello che tutti temono è l’invasione di Rafah” dice al Sir. “I bombardamenti e gli attacchi sono continui. I palazzi cadono uno dopo l’altro, con le famiglie costrette all’aperto e a cercare riparo tra le macerie o in ricoveri di fortuna. Gli ospedali non riescono a fornire cure sufficienti ai malati e ai feriti, manca di tutto, dalle bende alle siringhe, ai medicinali. Tanti medici e specialisti hanno lasciato la Striscia per andare in Egitto. A Gaza non c’è un posto sicuro dove stare”. “Al valico di Rafah ci tantissimi gazawi in attesa di uscire. Per ottenere un visto occorre pagare cifre enormi che non sono alla portata della popolazione. Oggi lascia Gaza solo chi ha i soldi ricevuti da amici o parenti che sono all’estero e raccolti con vere e proprie gare di solidarietà”.

Sopravvivere. L’attacco dell’Iran contro Israele? “A Gaza la popolazione ha altri pensieri più urgenti, dove dormire, cosa mangiare e soprattutto come restare in vita e sostenere i propri cari. L’unica cosa che vogliono restare in vita. Non ci interessa cosa accade in Iran, in Russia, in Ucraina.

Noi vogliamo che tutto finisca presto, che si possa ritornare nelle nostre case, ricostruire per quel che si può e tornare a vivere in sicurezza, se mai sarà possibile.

Vogliamo che i nostri figli possano tornare a scuola, che ci si possa curare, che i nostri anziani vivano sicuri. Quel che accade fuori dalla Striscia non ci riguarda – conclude -. Abbiamo bisogno di tanto aiuto, anche psicologico, per i nostri figli, per guardare avanti con un po’ di speranza. Non abbiamo più nulla, casa, lavoro, cure, scuole, niente, ci hanno tolto anche il futuro”.

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