Un fascino oltre lo spazio e il tempo

La figura di san Francesco d’Assisi ha colpito scrittori, filosofi, artisti e musicisti. E non solo quelli credenti. Il Santo ha affascinato tutti, musicisti come Liszt, che gli dedicò la prima delle Due leggende con l’episodio della predicazione agli uccelli, registi (Rossellini, Zeffirelli, Cavani e molti altri). Ma proprio la letteratura ci offre una prova certa del fascino francescano, perché ne parlano anche e soprattutto scrittori lontani dalla fede e dalla Chiesa. Lo stesso Hermann Hesse, nel suo secondo viaggio in Italia, era rimasto affascinato dai luoghi che avevano visto il percorso del Poverello, un uomo cambiato radicalmente nell’amore di Dio e di Madre Terra.

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Fa bene Jacques Dalarun a ricordare che in un passaggio degli Atti del beato Francesco e dei suoi compagni, poi ripreso nei Fioretti, san Francesco risponde a frate Masseo che gli chiede ostinatamente perché Dio si sia rivolto a lui: il Signore, per mostrare la sua onnipotenza “non ha trovato più vile creatura sulla terra” di lui. Un esempio di umiltà che non ha bisogno di altre parole. “Corpus franciscanum. Francesco d’Assisi, corpo e scrittura” (Edizioni Biblioteca Francescana, 183 pagine, 36 euro) è in realtà un aggiornato studio filologico in cui emergono chiaramente non solo i documenti, ma anche le vicissitudini di un uomo che decide di andarsene senza ragioni apparenti, con un atto di follia per i “savi”, una follia che però ha cambiato la Chiesa, gli uomini e il mondo intero, o per lo meno il modo di vivere di molti in latitudini diverse.Lo stesso Hermann Hesse, nel suo secondo viaggio in Italia, siamo nel 1903, era rimasto affascinato dai luoghi che avevano visto il percorso del Poverello, un uomo cambiato radicalmente nell’amore di Dio e di Madre Terra: “Davanti ai suoi occhi era caduto un velo, il mondo che vedeva era purificato e sacro, trasfigurato come il primo beato giorno del Paradiso”, scrive in “Francesco d’Assisi”. L’uomo che tra qualche anno avrebbe scelto l’oriente di Siddharta si era inchinato di fronte ad un altro tramite tra l’uomo e l’Impermanente.
Francesco ha affascinato tutti, musicisti come Liszt, che gli dedicò la prima delle Due leggende con l’episodio della predicazione agli uccelli, registi (Rossellini, Zeffirelli, Cavani e molti altri), senza dimenticare la scena della spoliazione della protagonista nel film “Cuore sacro”, di Özpetek, dopo la quale ovviamente arriva la visita della psichiatra (probabilmente ci sarebbe stata anche per Francesco se non fossimo stati in anticipo sui tempi) e soprattutto scrittori e artisti.
Certo, è d’obbligo citare il Giotto della Basilica superiore di Assisi, ma anche il Ghirlandaio di Santa Trinita di Firenze, con la spoliazione del santo – e su questo episodio torneremo più volte – : il vescovo lo ricopre con il suo mantello di fronte al padre e ad una corona di persone meravigliate e dagli splendidi abiti. Ma non dobbiamo dimenticare le due varianti di fine Cinquecento di Caravaggio rappresentanti l’estasi del santo sorretto da un angelo, una negli Stati Uniti e l’altra ai Civici Musei di Udine. E sono solo pochissimi esempi.
Ma proprio la letteratura ci offre una prova certa del fascino francescano, perché ne parlano anche e soprattutto scrittori lontani dalla fede e dalla Chiesa, come l’anticlericale Carducci nella commossa “Santa Maria degli Angeli” o D’Annunzio, o il Pirandello di una scena sulla cui affinità con la spoliazione di Assisi si è spesso sorvolato: il benestante protagonista di “Uno nessuno e centomila”, Vitangelo Moscarda, in piena crisi esistenziale, su consiglio dei collaboratori del vescovo dona tutti suoi beni affinchè si costruisca un ospizio per i poveri, nel quale lui stesso entra, ponendosi in contemplazione delle “nubi d’acqua”, “questi fili d’erba, teneri d’acqua anch’essi”, per aprire il proprio spirito al respiro degli alberi, alle albe, alle creature umili, come l’asinello “rimasto al sereno tutta la notte”. Una vera e propria spoliazione, ovviamente con modalità differenti, dai borghesi vestiti all’ “abito della comunità”, la mediazione della locale chiesa, la nuova attenzione verso il creato, il dileggio e lo sprezzo della gente.
Ma anche Chesterton non era rimasto indenne dalla fascinazione di un santo a cui dedicò un libro nel quale metteva in evidenza come chi si fa seguace di Cristo non può non sembrare paradossale e strano. Un fuori di testa per i benpensanti che però, suggerisce l’autore de “L’uomo che fu giovedì”, ha dato inizio alla poesia prima di Dante e all’arte dei grandi che sono stati rapiti dalla sua figura.
E proprio Dante è all’inizio della memoria del santo nella letteratura: a distanza di neanche un secolo nel Paradiso ci racconta di un uomo che in punto di morte ai suoi seguaci “raccomandò la donna sua più cara, e comandò che l’amassero a fede”. Quella donna, come è noto, è la povertà. Una forma di amore non astratto né retorico, ma reale, fatto di ciò che noi chiamiamo privazioni, e che per il bene dei nostri figli dovremmo imparare a vedere come essenziale e dono di “sora nostra madre terra, la quale ne sostenta e governa, e produce diversi fructi, con coloriti fiori et erba”. Non solo un santo cristiano, ma un profeta che ci indica la strada dell’oggi.

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