Da Cannes76 arriva in sala “Rapito” di Marco Bellocchio. La storia di Edgardo Mortara tra suggestioni oniriche e lampi di turbamento

Rapito”, dramma storico centrato sui temi cari al regista, che intrecciano dimensione politica, sociale e religiosa. Scritto dallo stesso Bellocchio insieme a Susanna Nicchiarelli, con la collaborazione di Edoardo Albinati e Daniela Ceselli, “Rapito” propone la sofferta vicenda di Edgardo Mortara, bambino ebreo che nella Bologna del 1858, al tempo dello Stato Pontificio, viene sottratto alla famiglia in quanto battezzato, per ricevere un’educazione cattolica sotto lo sguardo di papa Pio IX

(Foto Anna Camerlingo)

Incoronato con la Palma d’oro onoraria nel 2021, Marco Bellocchio torna in Concorso al 76° Festival di Cannes (2023) con un film duro e sfidante: è “Rapito”, dramma storico centrato sui temi cari al regista, che intrecciano dimensione politica, sociale e religiosa. Scritto dallo stesso Bellocchio insieme a Susanna Nicchiarelli, con la collaborazione di Edoardo Albinati e Daniela Ceselli, “Rapito” propone la sofferta vicenda di Edgardo Mortara, bambino ebreo che nella Bologna del 1858, al tempo dello Stato Pontificio, viene sottratto alla famiglia in quanto battezzato, per ricevere un’educazione cattolica sotto lo sguardo di papa Pio IX. Un’opera di grande tensione narrativa, secondo i consueti canoni di Bellocchio, tra esplorazione delle pieghe della Storia e sguardi serrati giocati tra sogno, poesia e incubo. Una vicenda dolorosa, problematica, popolata di vinti, dove il volto della Chiesa è accostato più alla spada che all’amore. Il punto Cnvf-Sir.

Il caso Mortara nella cornice del Risorgimento
Bologna 1858, Stato Pontificio. Una sera a casa di Momolo (Fausto Russo Alesi) e Marianna Mortara (Barbara Ronchi) bussa un drappello di guardie pontificie, giunte a prelevare il figlio di quasi sette anni, Edgardo (Enea Sala). L’inquisitore padre Pier Gaetano Feletti (Fabrizio Gifuni) ha disposto l’allontanamento del bambino dalla famiglia ebrea dopo aver saputo che Edgardo era stato battezzato segretamente dalla domestica, credendolo in fin di vita. Tra sguardi increduli e grida di disperazione dei Mortara, Edgardo viene condotto a Roma per ricevere un’educazione cattolica per volontà di papa Pio IX (Paolo Pierobon). Non volendo rassegnarsi, i Mortara sollevano il caso all’attenzione internazionale, con appelli sui principali giornali del tempo tra Europa e Stati Uniti. Divampa così una tensione tra Stato Pontificio e comunità ebraica, tensione amplificata anche dalle spinte del Risorgimento italiano.

Bellocchio disegna un orizzonte umano di vinti
Il cinema di Marco Bellocchio non è mai accomodante. In quasi sessant’anni di carriera e oltre trenta lungometraggi – tra i suoi titoli più recenti “Il traditore” (2019) e la miniserie “Esterno notte” (2022) –, il regista piacentino classe 1939 ha sempre mantenuto una chiara linea di coerenza narrativa, sposando il racconto della Storia con uno sguardo carico di tensione lucida e contestatrice, pervaso da un’energia vigorosa, a tratti travolgente.
Bellocchio non si serve di sguardi piani, neutri, ma propone la Storia addizionata di complessità, di suggestioni ora poetiche ora oniriche, persino claustrofobiche. In “Rapito” decide di confrontarsi con un avvenimento vero, drammatico, che a suo tempo ha incrinato il dialogo tra Chiesa cattolica e comunità ebraica; un soggetto che ha incuriosito anche il regista Steven Spielberg, per un momento vicino all’idea di farne un film.
Bellocchio ha affrontato la vicenda rimanendo fedele alla sua cifra stilistica, facendo leva su quei nodi tematici ricorrenti nella propria filmografia. Il regista, infatti, ha più volte messo in racconto la Chiesa e le questioni della fede rimarcando il suo desiderio di confronto come pure la sua chiara presa di distanza o di incomprensione: da “Nel nome del padre” (1972) a “L’ora di religione” (2002), da “Buongiorno, notte” (2003) a “Bella addormentata” (2012).
In “Rapito” ci mostra un volto preciso della Chiesa, calata nella cornice del potere temporale, nel perimetro dello Stato Pontificio: una Chiesa di palazzo e non di comunità. E non stupisce, dunque, che il regista la rappresenti rigida, inflessibile, “chiusa” in una lingua – il latino – poco accessibile ai più. La Chiesa che sceglie di mostrarci Bellocchio è quella che abdica all’amore per abitare fermamente le regole, spingendosi verso lidi insensati, come si deduce dal caso di Edgardo Mortara. E se la linea di trasmissione della fede nel mondo cattolico, nel film di Bellocchio, sembra essere figlia di tali rigide imposizioni, in quello ebraico si muove invece sui sentieri della tenerezza familiare, nelle preghiere sussurrate di madre in figlio.
A ben vedere, però, il film “Rapito” non si gioca sulla mera polarizzazione tra mondo cattolico ed ebraico. La storia affrontata fa emergere infatti un orizzonte umano di vinti, di solitudini e sofferenze senza rimedio: l’inquisitore padre Feletti, che mortifica il senso della religione in una giostra di fredde procedure, genera conseguenze disastrose; papa Pio IX, scegliendo di appoggiare il sequestro del piccolo Edgardo, si espone al dissenso, a vivere una stagione di incomprensioni e doloroso isolamento; la famiglia Mortara, nel cercare di dare risonanza alla vicenda, al proprio dolore, accende turbamenti non solo tra le fila cattoliche ma anche all’interno della stessa comunità ebraica. Un quadro umano dolente, impantanato, in cerca di una via d’uscita: un “equilibro” sconvolto e sovvertito dalla breccia di Porta Pia (1870), che cambia le ascisse e le ordinate della Storia.

Autore dallo sguardo magnetico e sfidante
“Rapito” richiede una doppia lettura, stilistica e tematico-narrativa. Anzitutto, è da rimarcare il vigore della regia di Marco Bellocchio, capace di orchestrare un racconto solido, compatto e puntellato di viva tensione narrativa. Il film presenta una cura formale notevole, dalla messa in scena alla fotografia, alle musiche, amplificata poi dal lavoro condotto dagli interpreti, tutti di grande valore a cominciare da Paolo Pierobon, Fausto Russo Alesi, Barbara Ronchi, Enea Sala, Leonardo Maltese, Filippo Timi e Fabrizio Gifuni.
Bellocchio affascina poi per il modo in cui tratteggia la dimensione introspettiva dei personaggi in campo, come ad esempio lo smarrimento del piccolo Edgardo nelle stanze del seminario cattolico: lì, in una sequenza di grande eleganza e poesia, colpisce la suggestione onirica quando Edgardo si reca davanti al grande crocifisso, su cui si arrampica per rimuovere i chiodi dalle estremità del corpo di Gesù. Edgardo crede di poter liberare Cristo dalla sua croce. Al lirismo dei sogni di Edgardo si contrappone il turbamento degli incubi di Pio IX, preoccupato per le dure critiche e gli attacchi ricevuti: sentimenti che trovano l’apice in una sequenza in cui vediamo urlare il Pontefice nel cuore della notte, svegliandosi di soprassalto, convinto di essere circondato dai Mortara pronti a circonciderlo contro la sua volontà.
Se lo stile di Bellocchio risulta incisivo ed efficace – il film è girato magnificamente! –, è la traiettoria del racconto di “Rapito” che si fa sfidante e non poco problematica. Bellocchio non fa sconti (nuovamente) alla Chiesa e la bersaglia con una carica di contestazione, ricorrendo a uno sguardo spigoloso e disincantato. È vero, qui la Chiesa è “sedotta dalla politica”, dal potere temporale, ma non c’è mai traccia d’altro, di un’alternativa: non c’è amore, carità o speranza. Il mondo della Chiesa sembra sorretto da un’impalcatura di regole rigide e polverose, prive di sentimento, povere di grazia. Ma è possibile che sia solo questo? Non rischia di essere una semplificazione troppo netta e parziale?
Il cinema di Marco Bellocchio si fa amare per la sua indubbia vitalità e qualità espressiva, ma la prospettiva del suo racconto non sempre è di facile cooperazione o di piena condivisione. È un cinema che non concede mediazioni, che coinvolge o persino travolge con tensione dura e implacabile. “Rapito” è un film complesso, problematico, per dibattiti.

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